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Dizionario di dottrina
sociale della Chiesa

LE COSE NUOVE DEL XXI SECOLO

Fascicolo 2022, 4 – Ottobre-Dicembre 2022

Prima pubblicazione online: Dicembre 2022

ISSN 2784-8884

DOI 10.26350/dizdott_000106

Modelli della giustizia e sanzioni penali Models of justice and criminal penalties

di Luciano Eusebi

Abstract:

ENGLISH

Il testo evidenzia i legami tradizionali del diritto penale con visioni retributive della giustizia, non sostenibili dal punto di vista religioso e controproducenti dal punto di vista della prevenzione, ma altresì pericolose con riguardo alla legittimazione di rapporti conflittuali nel mondo contemporaneo.

Viene auspicato un modello della risposta ai reati di tipo progettuale e non ritorsivo, che possa fungere da riferimento anche per politiche di pace e di fratellanza universale.

Parole chiave: Modelli della giustizia, Pena e teologia, Prevenzione dei reati, Riforma del sistema sanzionatorio penale, Giustizia riparativa
ERC: SH2_8 - Legal theory, legal systems, constitutions, comparative law

ITALIANO

The essay highlights the traditional links of criminal law with retributive justice, unsustainable from a religious point of view and counterproductive from a prevention point of view, but also dangerous as legitimation of conflicting relationships in the contemporary world.

It is hoped for a project-based and non-retaliatory model of the response to crimes, which can also serve as a reference for policies of peace and universal brotherhood.

Keywords: Models of justice, Penalty and theology, Crime prevention, Reform of the criminal sanctions system, Restorative justice
ERC: SH2_8 - Legal theory, legal systems, constitutions, comparative law

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Il paradigma classico del punire come espressione di un modello non più sostenibile della giustizia

Da sempre le norme penali (può riprendersi, in proposito, la voce, redatta da chi scrive, Diritto penale in Dizionario di dottrina sociale della Chiesa. Scienze sociali e Magistero, Vita e pensiero, 2004) assumono un ruolo che va ben oltre l’ambito della risposta giuridica ai reati. Costituiscono, infatti, l’emergere più evidente del modello di un agire reputato giusto verso comportamenti umani oggetto di riprovazione. Riflettere, pertanto, sulla configurazione di quelle norme risulta cruciale onde rivedere criteri relazionali da secoli sedimentati, che oggi tuttavia, sul piano planetario, rischiano di condurre alla catastrofe.

Il diritto penale, infatti, ha espresso nel corso della storia una visione della giustizia – tuttora operante nei più diversi rapporti fra singoli individui o aggregazioni umane – fondata sullo schema della corrispettività (ben più risalente, ma teorizzato nella Grecia antica già in epoca presocratica), visione per la quale sarebbe giusto agire verso l’altro in maniera analoga alla valutazione che si dia della sua condotta: negativo per negativo (come si evince dall’immagine della bilancia), mentre solo nei confronti di chi ci procuri del bene saremmo tenuti a ricambiare con il bene.

Si tratta di un approccio del tutto formale, che non s’interroga, cioè, dal punto di vista etico circa i contenuti dell’agire giusto, in quanto essi trarrebbero la loro legittimazione dal mero conformarsi alla qualità, negativa o positiva, ravvisata nell’atteggiamento del destinatario. Il che ha condotto, non di rado, a collocare lo stesso agire positivo verso altri entro una dinamica commerciale, cui si manifesta estranea la prospettiva della gratuità: tanto da rendere problematico, per molti, ammettere (richiede umiltà) di aver ricevuto un qualche dono, senza poter asserire di averlo meritato.

Sul piano penale questa visione si esprime soprattutto, nei Paesi che non applicano più la pena di morte, attraverso una graduazione aritmetica, nella sentenza di condanna, della pena detentiva, entro i limiti fissati dalla legge: pena che dunque non assume, in tale sede, alcuna caratteristica progettuale, in quanto configurata come un danno corrispettivo (tale da esigere un’unità di misura omogenea) rispetto al fatto colpevole.

Ne deriva che le dispute classiche sulla funzione del punire hanno dato sostanzialmente per presupposta la conformazione, comunque, retributiva, delle sanzioni penali e, con ciò, il ruolo centrale del ricorso al carcere: nonostante la drammaticità della condizione penitenziaria, che in Italia ha dato luogo nel 2022 a un tasso di suicidi tra i detenuti, senza contare i tentativi, più di venti volte superiore a quello riscontrabile fuori dal carcere (a fine novembre, già 79 casi, oltre a 28 decessi le cui cause restano da chiarire).

Ma ne deriva, altresì, il rischio che gli stessi strumenti utilizzabili, date certe condizioni, onde evitare l’esecuzione in carcere di condanne detentive non gravi, oppure consentire l’estinzione del reato per il buon esito di una messa alla prova prima della condanna, oppure permettere che, in forza di un percorso rieducativo, l’esecuzione detentiva possa evolvere in modalità non più detentive (o non più totalmente detentive) e conoscere una pur limitata riduzione temporale, finiscano per essere percepiti dalla pubblica opinione come rinuncia a esercitare in modo pieno la giustizia e a perseguire in modo ottimale la prevenzione: nonostante l’efficacia che tali strumenti dimostrano nel ridurre i tassi di recidiva.

Il parallelismo tra le giustificazioni classiche della pena e della guerra

Ora, il connubio tra la nozione di giustizia e il paradigma della corrispettività si manifesta irrazionale sia per sé stesso, sia per quanto concerne specificamente la prevenzione dei reati.

Sotto il primo profilo, esso comporta un’inevitabile moltiplicazione del male, poiché offre sempre l’alibi per agire con ostilità verso l’altro, essendo sempre possibile reperire qualche aspetto, per lo meno, umbratile in ogni persona e in ogni contesto umano. Ma deve constatarsi, in aggiunta, come molto spesso si siano giudicate negativamente realtà umane altre non soltanto in rapporto a qualche effettiva responsabilità personale, bensì per il solo fatto di non corrispondere agli interessi, o alle visioni, del giudicante. Cosicché si sono legittimate, per tale via, innumerevoli guerre asserite giuste (vedi Fratelli tutti, 2020, 255 ss.), fino ai campi di sterminio e ai genocidi, costituenti l’esito estremo dell’idea in forza della quale, una volta riguardata come negativa una fra le suddette realtà, sia legittimo neutralizzarla o addirittura distruggerla. Situazione, questa, che ha fatto assurgere il conflitto (non senza forme di avallo pure sul piano filosofico) a prerogativa ordinaria delle relazioni in ambito umano: suffragando l’assunto che il bene proprio richieda di essere perseguito a discapito del bene altrui, in quanto avvertito, rispetto al proprio, concorrenziale, se non incompatibile. Tuttavia, dalla metà all’incirca del secolo scorso l’umanità dispone degli strumenti bellici in grado di cagionare la distruzione dell’intero pianeta, senza alcun vincitore: il che rimarca l’assoluta urgenza di coltivare un modello diverso della giustizia.

A questo fine, dunque, appare tanto più importante rimarcare le contraddizioni cui una visione retributiva della medesima va incontro nello stesso settore, quello penale, che ne ha rappresentato il contesto espressivo più palese.

Prevenzione primaria e contrasto dei profitti illegali

Se la giustizia penale si risolve nell’applicare un corrispettivo al responsabile immediato di un accadimento illecito, ciò implica, anzitutto, ignorare l’incidenza dei fattori – sociali, culturali ed economici – che favoriscono le scelte criminose (si pensi ai pagamenti in nero, ai paradisi bancari, alla mancata integrazione di soggetti svantaggiati, all’inerzia educativa, all’inefficienza delle istituzioni pubbliche, ecc.), i quali presuppongono livelli, più o meno intensi, di corresponsabilità sociale: vale a dire, significa trascurare programmaticamente il ruolo decisivo per il contrasto dei reati costituito dalla prevenzione primaria (in larga misura negletta, proprio poiché incide in modo più diretto della stessa punibilità su interessi ed egoismi diffusi). Andrebbe evitato, del resto, che il darsi della giustizia penale, selezionando le persone degne di condanna, finisca per svolgere la funzione di accreditare tra i consociati una percezione d’innocenza rispetto alle ingiustizie sussistenti nei rapporti umani: non trascurando, fra l’altro, che il diritto penale ha sempre intercettato soltanto una parte infinitesima (basti riguardare gli ultimi due secoli) dei fatti ingiusti produttivi, nel mondo, di sofferenza e di morte.

Concepire la pena come sofferenza corrispettiva rispetto al fatto colpevole, inoltre, ha significato sottovalutare per lungo tempo la necessità dell’intervento sui profitti illecitamente conseguiti, i quali rappresentano l’elemento propulsivo di gran parte della criminalità e la cui sottrazione incide sugli interessi dei beneficiari principali di quest’ultima, circa i quali, non di rado, risulta difficoltoso comprovare le responsabilità.

Nessuna pena può compensare un fatto criminoso

L’immagine della bilancia riflette, poi, l’illusione che la pena retributiva possa riequilibrare, quasi per una forza catartica propria, lo scompenso nelle relazioni sociali prodotto dal reato. Quando invece, se certamente si tratta di superare simile frattura, ciò richiede l’individuazione di percorsi i quali posseggano un’attitudine concreta a realizzare tale obiettivo, tra le persone coinvolte nel fatto illecito e rispetto alla comunità civile: obiettivo che non è di certo conseguito attraverso una contro-frattura ritorsiva, alla quale si attribuisca l’inesistente capacità di annullare, compensandolo, il disvalore del reato. Del resto, non esiste alcuna pena la quale corrisponda per sua stessa natura al fatto colpevole, per cui i contenuti del punire dipendono sempre da decisioni umane. E comunque quel tipo di pena non offre alcunché, in concreto, alle vittime, orientandole, piuttosto, a rendersi desiderose, dopo il reato, del danno e della sofferenza di un altro individuo.

Ancora: la logica compensativa presume di poter quantificare, e retribuire, la colpevolezza insita nelle condotte rilevanti ai fini penali, cioè l’uso, nel porle in essere, della libertà: sebbene ci sia dato conoscere soltanto i fattori che abbiano influenzato l’agire («solo Dio – così Gaudium et spes, 1965, 28c – è giudice e scrutatore dei cuori; perciò ci vieta di giudicare la colpevolezza interiore di chiunque»). Cosicché quella logica non è in grado di adeguare le sanzioni penali alla condizione effettiva del condannato, rendendosi necessari, a tal fine, contenuti della risposta al reato di natura progettuale. Anzi, finisce per far dipendere l’entità della pena dall’impatto oggettivo dei fatti lesivi causati, pur in presenza di medesime condotte trasgressive (nei reati colposi, in particolare, finisce per rispondere il trasgressore più sfortunato tra molti che abbiano violato una medesima regola).

I modelli tradizionali della prevenzione penale

Soprattutto, peraltro, la pena intesa come corrispettivo può far leva onde produrre effetti preventivi (cioè onde dissuadere i consociati – prevenzione generale – dal delinquere e far sì che il condannato – prevenzione speciale – non torni a delinquere) solo su processi di intimidazione e di neutralizzazione: risultando del tutto estranea al suo orizzonte qualsiasi prospettiva motivazionale, cioè orientata a promuovere il rispetto della legge per scelta personale. La minaccia di un danno può costituire infatti, dal punto di vista psicologico, solo oggetto di timore e, se tale danno consiste nell’essere reclusi, l’efficacia specialpreventiva risulta identificata con l’incapacitazione fisica (nonché, a sua volta, con il timore del condannato di tornare in carcere dopo il fine pena).

Simili aspettative, tuttavia, restano ampiamente deluse. La scelta di delinquere, in primo luogo, non dipende, perfino nell’ambito dei reati economici, da una mera ponderazione tra obiettivi perseguiti ed entità delle pene applicabili. Considerata, inoltre, la percentuale maggioritaria dei reati che restano impuniti (cioè della cosiddetta cifra oscura), saranno sempre molti coloro i quali, in assenza di una motivazione personale a non delinquere, trasgrediranno facendo leva su tale possibilità. E, del resto, la pena esemplare resta tipica dello Stato debole, che, non sapendo intercettare credibilmente la criminalità più grave, cerca di attestare la sua presenza punendo in maniera drastica, per lo più, agenti di reato a loro volta deboli.

Sul piano, poi, della prevenzione speciale, il fatto è che le politiche di neutralizzazione dei condannati non hanno mai impedito la riproduzione nel tempo delle compagini criminali (dando luogo, inoltre, a tassi di recidiva molto elevati dopo l’eventuale fine pena, date le difficoltà di reinserimento sociale degli ex detenuti) e, quindi, non hanno mai sostanzialmente inciso, in assenza di altre tipologie d’intervento, sui tassi sociali di criminalità.

Il ruolo cardine della motivazione ai fini di una strategia preventiva efficace

Tutto questo lascia comprendere come, in realtà, la prevenzione efficace e stabile dei reati dipenda, piuttosto, dalla capacità dell’ordinamento giuridico di motivare, anche attraverso il contenuto dei provvedimenti penali, al recepimento delle ragioni sulle quali si fondano i precetti penalmente sanzionati: vale a dire, dal consenso nei confronti di questi ultimi (sussistendo pur sempre un effetto dissuasivo correlato alla previsione stessa dei suddetti provvedimenti). Non a caso, la stessa pena di morte ha un effetto preventivo controproducente, in quanto mina la credibilità del messaggio inerente al rispetto della vita umana. Così che l’art. 27, comma terzo, della Costituzione italiana, secondo il quale «le pene non devono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato», indica una ben precisa strategia politico-criminale: alla luce del fatto per cui nulla conferma nella sua validità una norma trasgredita e contrasta, in sede sociale, l’attrattività dei modelli di vita criminosi più del fatto che lo stesso trasgressore riconosca l’ingiustizia posta in essere, s’impegni in senso riparativo e reimposti secondo legalità la sua vita. Come ben sanno le organizzazioni criminali, che, non a caso, temono massimamente gli effetti destabilizzanti prodotti, rispetto ad esse, dal recupero alla legalità di taluno dei loro membri.

La legge sarà nondimeno chiamata – è ovvio – a indicare, in senso garantistico, limiti massimi delle sanzioni penali per ciascun reato e criteri per le specifiche scelte giudiziarie: non con riguardo, tuttavia, a imponderabili giudizi di corrispondenza tra reato e pena, bensì all’intervento che possa ritenersi sufficiente onde perseguire in modo realistico le finalità predette.

In sintesi, è dunque tempo di realizzare nel diritto penale il passaggio dalla logica inveterata dell’applicazione di conseguenze ritorsive nei confronti dell’agente di reato a una visione diversa del fare giustizia, che concepisca tali conseguenze in termini progettuali: secondo l’orientamento oggi rappresentato soprattutto, sul piano internazionale, dalla nozione di giustizia riparativa.

Il problema della pena e la Bibbia

Ciò premesso, il rapporto tra diritto penale e religione è stato, nel corso della storia, quanto mai equivoco: la visione tutta umana, di natura retributiva, della giustizia ha infatti condizionato, dai tempi più antichi, non poche espressioni della religiosità, fino a offuscare i contenuti propri della fede: per poi utilizzare quelle espressioni a proprio sostegno. Oggi, pertanto, è necessario un nitido chiarimento circa il fatto che tale visione non ha giustificazioni religiose: assunto sostanzialmente acquisito sul piano teologico, ma non altrettanto nel vissuto religioso corrente.

È potuto avvenire, infatti, che molti linguaggi retributivi reperibili nelle Scritture, specie per quanto concerne la legislazione del popolo ebraico o gli atti di violenza attribuiti a Dio nell’Antico Testamento, non siano stati letti in rapporto alle categorie culturali degli autori dei testi, attraverso le quali la rivelazione biblica si manifesta, ovvero in rapporto alla faticosa comprensione di come Dio non sia da intendersi quale liberatore esclusivo, in un significato storico-politico, del “suo” popolo. Andando smarrita, in al modo, la percezione della giustizia salvifica tipica di Dio (la tzedaka), in quanto emergente fin dai racconti di Adamo e di Caino: la quale si esprime nel compiere, da parte di Dio, il primo passo verso chi si sia posto attraverso la propria condotta in una situazione di fallimento esistenziale, onde fare verità, con lui, su tale situazione e indicargli, come liberatore, la strada conforme al suo progetto originario di salvezza per ogni essere umano.

Il pensiero retributivo, anzi, ha finito per condizionare la stessa comprensione di quello che costituisce il fulcro della fede cristiana, vale a dire il realizzarsi della salvezza in Gesù. Per cui s’è detto, nel solco delle cosiddette teorie della soddisfazione vicaria, che la salvezza deriverebbe dalla sofferenza (retributiva) patita dal Cristo sulla croce per compensare, come nessuno altrimenti avrebbe potuto, il peccato dell’umanità: quasi, dunque, che abbia forza redentrice, secondo una prospettiva tutta umana, il male che si oppone al male. Quando invece in Gesù, all’opposto, si rivela salvifico (manifestando la giustizia di Dio) l’amore testimoniato fino alla croce dinnanzi al male: quell’amore che apre, come attesta la risurrezione, alla vera vita ed esprime l’essere stesso di Dio.

Il che non trova smentita nella dottrina dell’inferno, posto che esso indica «la situazione in cui viene a trovarsi chi liberamente e definitivamente si allontana da Dio», cioè «si chiude al suo amore» (Giovanni Paolo II, Udienza generale, 28 luglio 1999, 3): senza, tuttavia, poter dire di più sul destino di ciascun essere umano.

La questione penale nel magistero recente e nel diritto della Chiesa

La prospettiva della giustizia di Dio che si esprime nella chiamata di tutti alla salvezza mediante la sua misericordia, e non nella retribuzione, è stata ampiamente espressa, peraltro, nel magistero degli ultimi pontefici. Così san Giovanni Paolo II ne ha tratto l’affermazione del perdono come caratteristica inerente alla giustizia (vedi anche Fratelli tutti, 252), cioè dell’incompatibilità con quest’ultima di una risposta al male che ne ripeta le caratteristiche (Messaggio per la Giornata mondiale della pace 2002, 8, in cui si auspica «una politica del perdono espressa [fra l’altro] in istituti giuridici»). E papa Francesco ne ha più volte derivato precise indicazioni circa la riforma dei sistemi penali, nel senso secondo cui «la Chiesa propone una giustizia che sia umanizzatrice [e] genuinamente riconciliatrice» (Ai partecipanti al xix congresso internazionale dell’associazione internazionale di diritto penale, 30 maggio 2014, 3). Già, del resto, il Compendio della dottrina sociale (2004) aveva affermato che la finalità della «correzione del colpevole» deve «favorire il reinserimento delle persone condannate» e «promuovere una giustizia riconciliatrice, capace di restaurare le relazioni di armonica convivenza spezzate dall’atto criminoso» (403).

Nondimeno, resta assai in ritardo rispetto a questi sviluppi il Catechismo della Chiesa Cattolica (nonostante l’auspicata riforma nel 2018 del n. 2267, che definisce ora la pena di morte, senza riserve, «inammissibile» «alla luce del Vangelo»): il n. 2266 infatti, inquadra tuttora del tutto impropriamente la pena nel capitolo dedicato alla legittima difesa (che presuppone, diversamente dalla pena, una condotta aggressiva in atto) e si limita a raccogliere alcuni stereotipi definitòri del punire, senza alcun riferimento, in un testo di catechesi, a testi biblici o ecclesiali. Come pure deve constatarsi che i molteplici stimoli del magistero circa l’evoluzione degli apparati sanzionatòri rispetto ai modelli tradizionali del punire non hanno trovato riscontro né in sede di riforma, nel 2021, del libro VI (De sanctionibus poenalibus in ecclesia) del codice di diritto canonico, né entro l’ambito dell’intensa produzione legislativa in materia penale, negli ultimi anni, dello Stato della Città del Vaticano.

Nuove modalità di risposta al reato e giustizia riparativa

Il contributo in materia penale del pensiero di orientamento cattolico appare dunque chiamato a consolidare, soprattutto, l’evoluzione – rispetto alla tradizionale dipendenza dal paradigma retributivo – delle risposte sanzionatorie ai reati: secondo la prospettiva per cui tali risposte devono essere pensate come aperte, almeno potenzialmente, al bene di tutte le parti coinvolte e non mutuare il loro contenuto, per analogia, da quello dell’illecito posto in essere («le paure e i rancori facilmente portano a intendere le pene in modo vendicativo, quando non crudele, invece di considerarle come parte di un processo di guarigione e di reinserimento sociale», Fratelli tutti, 266). Il che comporta sia introdurre una gamma di sanzioni non detentive (insieme a strumenti di definizione anticipata del processo) che implichino impegni di responsabilizzazione verso i beni giuridici offesi e possano assumere portata riconciliativa, sia perseguire effettivamente obiettivi di recupero sociale del condannato anche nei casi in cui il permanere di collegamenti con la criminalità organizzata o il pericolo concreto della ripetizione di reati gravi non consentano di evitare il ricorso alla reclusione. Fermo in ogni caso l’impegno, più volte rimarcato da papa Francesco (per esempio nel discorso all’Associazione internazionale di diritto penale, 23 ottobre 2014), inteso alla salvaguardia delle garanzie difensive in sede processuale, al contrasto del cosiddetto populismo penale e a garantire il rispetto della dignità umana di imputati e condannati, in qualsiasi fase dell’iter penalistico; come pure rivolto al superamento della pena senza speranza rappresentata dall’ergastolo.

Può tuttavia sorprendere, in questa prospettiva, che alcune modalità nuove di gestione del reato, consonanti rispetto a sensibilità di matrice cristiana e il cui emergere è stato certamente favorito anche da reminiscenze culturali cristiane, si siano affermate, nell’ambito penalistico laico, senza un apporto diretto dell’elaborazione giuridica interna alla Chiesa o della riflessione teologico-morale.

L’esempio più significativo è dato, in proposito, dai programmi di giustizia riparativa (ovvero, di mediazione penale), costituenti la forma più avanzata della restorative justice, ormai diffusi nel mondo, anche in forza di documenti internazionali, e noti – per il tramite, finora, della sospensione del processo con messa alla prova – allo stesso ordinamento penale italiano: il quale, peraltro, ne ha prevista una forte incentivazione, con possibili effetti sulle entità sanzionatorie e sui provvedimenti penitenziari (ma anche ai fini di un’eventuale rimessione della querela, nei reati che la richiedano), attraverso la cosiddetta riforma Cartabia (d.lgs. n. 150 del 2022).

Un orientamento, si noti, prodottosi inizialmente onde rivalutare il ruolo stesso delle vittime e il loro bisogno profondo di vedere riconosciuta anche dall’offensore l’ingiustizia subita («le stesse persone a cui avete cagionato dolore – così si rivolgeva san Giovanni Paolo II ai detenuti del carcere di Regina coeli a Roma il 9 luglio 2000 – sentiranno forse di aver avuto giustizia più guardando al vostro cambiamento interiore che al semplice scotto penale da voi pagato»).

I suddetti programmi offrono un contesto in cui, sospeso o dilazionato per un certo tempo il processo, si rende possibile discutere apertamente degli addebiti tra imputato e vittima (o un soggetto esponenziale dei beni aggrediti), senza riflessi dannosi per il primo: rimanendo ignoti all’organo giudicante i contenuti dei colloqui. Così da potersi addivenire a un giudizio condiviso sui fatti, alla definizione di eventuali impegni riparativi e, soprattutto, al recupero di un reciproco riconoscimento personale tra le parti coinvolte: attraverso quella dimensione del dialogo che, invece, risulta del tutto preclusa nel processo. E così da permettere ai mediatori di relazionare al giudice circa la qualità del percorso realizzatosi.

Una giustizia diversa per la fratellanza universale

Che la riflessione ecclesiale sui temi della giustizia penale sappia essere propulsiva – e non subalterna a modelli ormai privi di sostegno anche dal punto di vista della teologia biblica – risulta tuttavia necessario, ancora una volta, in un orizzonte più generale. L’impegno della Chiesa, e specificamente di papa Francesco, affinché si affermi urgentemente la consapevolezza di una fratellanza universale (vedi il documento sulla fratellanza umana di Abu-Dhabi, 2019) risulta infatti correlato al superamento di quelle medesime logiche retributive che hanno trovato nella giustizia penale il loro prototipo. Posto che il futuro dell’umanità appare dipendere dall’emergere progressivo di un messaggio rivolto dal basso ai governanti degli Stati, attraverso il quale ciascun individuo evidenzi di non identificare più il perseguimento del proprio massimo bene attraverso il prevalere della sua realtà di appartenenza rispetto ad appartenenze altrui identificate come concorrenziali o potenzialmente nemiche, e pertanto come realtà negative.


Bibliografia
• Eusebi L. (2022), La Chiesa e il problema della pena. Sulla risposta al negativo come sfida giuridica e teologica, Morcelliana (Scholé).
• Giovita A. (2022), Per una giustizia ri-generativa. Chiesa in uscita ed esercizio dialogico del diritto, Città Nuova.
• Lizzola I. (2020), Oltre la pena. L’incontro oltre l’offesa, Castelvecchi.
• Mannozzi G. - Lodigiani G.A. (2017), La giustizia riparativa. Formanti, parole e metodi, Giappichelli.
• Wiesnet E. (trad. it. 2007), Pena e retribuzione. La riconciliazione tradita, Giuffrè.


Autore
Luciano Eusebi, Università Cattolica del Sacro Cuore (luciano.eusebi@unicatt.it)