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Dizionario di dottrina
sociale della Chiesa

LE COSE NUOVE DEL XXI SECOLO

Pace

di Carlo Maria Martini

1. Alla luce della rivelazione biblica – 2. Ai fondamenti di una visione cristiana della pace – 3. La pace nell’odierno insegnamento della Chiesa – 4. Compiti delle religioni e dei cristiani

“Pace” è parola primordiale che, di là da ogni cultura e ideologia, fa vibrare il cuore di tutti: nessuno che la senta pronunciare rimane indifferente; ciascuno la vorrebbe dentro di sé, in casa, in famiglia, nella società, nella città, nella nazione, nel mondo intero; tutti, intuendone il significato e il valore, la desiderano, godono per la sua presenza e soffrono per la sua assenza.

È una parola, che esprime una categoria e indica una realtà, ricca di significati e dalle molteplici sfaccettature. Ne è riprova il fatto che varie e diversificate sono le interpretazioni e le accezioni che se ne danno. C’è chi, secondo una concezione negativa, la riduce ad assenza di guerra o di lotta violenta: in questo caso essa può significare una convivenza serena tra i singoli e i popoli, ma può anche consistere nella tranquillità di un ordine sociale, politico ed economico messo a servizio delle categorie e dei gruppi dominanti; può presupporre o richiedere l’annientamento del nemico e fondarsi sulla forza delle armi o può consistere nell’attivazione di un’azione diplomatica e politica che mira al raggiungimento di compromessi e di intese di vertice. C’è chi, invece, ne nutre una concezione più positiva e la intende come realizzazione di un ordine sociale fondato sulla giustizia, rispettoso dei diritti delle persone e dei popoli, progressivamente teso alla instaurazione di una autentica solidarietà operante tra tutti. In questo secondo orientamento, alcuni propongono una sorta di pacifismo radicale, che rifiuta qualsiasi forma di difesa-offesa armata, altri propendono verso un pacifismo relativo, con l’individuazione e la precisazione delle condizioni che possono permettere il ricorso alla stessa forza armata.

1. Alla luce della rivelazione biblica

Anche nella rivelazione biblica, la pace ci appare come realtà dai diversi e ricchi significati. Già l’ebraico shalòm, tra le parole più comuni nella vita quotidiana di Israele quale saluto e augurio amichevole e rassicurante (cfr. Gn 26, 29; 43,23; Gdc 6, 23; 8, 6; 19, 20; Tb 12, 17; 2Sam 18, 29; Dn 10, 19), indica una realtà ampia e tendenzialmente globalizzante: significa integrità, totalità, interezza, pienezza di vita, sazietà e consolazione, fecondità e benedizione; designa il benessere dell’esistenza quotidiana, lo stato dell’uomo che vive in armonia con la natura, con se stesso, con Dio. Come tale, la pace è oggetto di desiderio da parte dell’uomo, che deve ricer carla concretamente contribuendo alla prosperità della propria comunità (cfr. Ger 29, 7; 38, 4; Dt 23, 7; Sal 33, 5); essa è anche assenza di guerra tra diversi popoli e va ricercata come condizione fondamentale di prosperità e attraverso proposte e alleanze di pace (cfr. Dt 20, 10-11; Gdc 21, 13; Gs 9, 15).

La pace, tuttavia, secondo la rivelazione biblica, non può essere un puro risultato di tecniche e politiche umane. Essa è realtà che discende da Dio, che è il creatore stesso della pace (cfr. Is 45, 7), come benessere e ordine, gioia e tranquillità (cfr. Sir 38, 8; 50, 22-24); in essa si compendiano tutti i beni di prosperità e sicurezza che formano l’oggetto delle promesse di Dio. In particolare, quale contenuto e frutto della benedizione divina (cfr. Nm 6, 24-26), la pace è dono di Dio ed è legata allo splendore del volto di Dio: essa è il culmine dei doni o attività di Dio a favore dell’uomo e nasce dalla contemplazione del volto di Dio, che è fonte di sicurezza e di gioia (cfr. Sal 21, 7; 16, 11). Poiché la contemplazione del volto di Dio è possibile in questa vita mediante Gesù, Figlio di Dio nel quale il Padre ha voluto rivelarsi, la radice ultima e il fondamento più autentico della pace consistono nell’essere e nel sapersi figli di Dio nel Figlio Gesù, in lui amati dal Padre.

Proprio perché contenuto e frutto della benedizione divina, la pace va vista nel quadro dell’alleanza, di cui è conseguenza e retribuzione, e, come tale, è condizionata dalla risposta positiva del popolo e del singolo nel rapporto dialogico con Dio che l’alleanza instaura e richiede. In questa ottica, le benedizioni operatrici di pace sono riservate a chi è fedele (cfr. Lv 26, 3-6.11-22; Es 23, 20-33) e il dono della pace è per l’uomo amante della legge, che imita il Dio della pace rinunciando alla violenza e vivendo giustamente, cooperando così all’instaurazione della pace sulla terra (cfr. Sal 118, 165; Pr 3, 1-2; Is 32, 17; Bar 3, 13-14). Viene alla luce, in tal modo, il rapporto intrinseco che intercorre tra il dono della pace e l’attuazione della giustizia (cfr. Sal 72, 15-17; 85, 11; Is 2, 2-5; 32, 17; Ger 6, 10-14; 8, 11; Mi 3, 5ss). Tale rapporto, mentre dice il compito etico dell’uomo e del popolo di praticare la giustizia, conduce a vedere nella pace una realtà perpetua e sicura perché frutto della giustizia scritta da Dio nel cuore del suo popolo ed espressione della vita nuova, che è pura grazia, operata dallo Spirito di Dio (cfr. Is 32, 15-18; Ez 37, 13-14.26-27).

Destinata a realizzarsi in modo inscindibile dalla giustizia, la pace è soprattutto il bene messianico per eccellenza. Essa ha il suo perno in Gerusalemme, la città santa dove Dio manifesta il suo volto e fa scendere la sua benedizione (cfr. Sal 121, 6-9; Is 54, 10.13-14), chiamata ad essere sacramento di pace per tutte le genti (cfr. Ger 3, 17-18; Is 2, 2-4). La pace diventa così realtà universale, che abbraccia tutti (cfr. Is 57, 19; 66, 12), realtà cosmica, che dà origine a cieli nuovi e terra nuova nei quali è dato di sperimentare l’armoniosa convivenza di tutte le creature (cfr. Is 11, 6-8; 65, 17.24-25), realtà escatologica, operata dal Messia, immagine e principe della pace (cfr. Is 9, 5-6; 11, 1-6; Ez 34, 23-24.30; Zc 9, 9-10; Mi 5, 3-4.6) e dal servo di Jahvé, il giusto per eccellenza, che addossandosi le colpe del suo popolo diviene per esso salvezza, remissione dei peccati, riconciliazione con Dio (cfr. Is 42, 1-7; 49, 5-6; 53, 5).

Tutto questo trova compimento nella Seconda Alleanza. La pace si realizza in pienezza in Gesù di Nazaret: nella sua nascita agli uomini amati da Dio viene fatto il dono della pace (cfr. Lc 2, 14); in lui si attuano compiutamente le antiche profezie sulla figura del pacificatore escatologico (cfr. 1Pt 2, 21-25); sulla sua bocca l’augurio della pace diventa l’annuncio e il dono di una salvezza (cfr. Lc 8, 48; Mc 5, 34; Lc 7, 50); egli stesso è la pace vera perché con la sua morte e risurrezione ha superaro ogni lacerazione degli uomini con Dio e tra loro (cfr. Ef 2, 14-18; Col 1, 20; Gv 16, 33); da lui la pace è donata ai discepoli e a tutti i credenti come dono e frutto della Pasqua, come vittoria sul peccato e sulla morte, come opera del suo Spirito che rinnova e dona la vita vera (cfr. Lc 24, 36; Gv 20, 19-23.26). La Chiesa, corpo di Cristo e dispensatrice dello Spirito, rappresenta sulla terra il luogo, il segno e la fonte della pace tra i popoli e dell’unità di tutto il genere umano (cfr. Gal 3, 28; Col 3, 11; Ap 21, 1-4), oltre ad essere sacramento della pace cosmica, strumento di quel ritorno di tutte le creature all’ordine dell’originario piano di Dio che si realizzerà alla fine dei tempi, quando il dinamismo della Pasqua si manifesterà in pienezza e tutto verrà ricapitolato in Cristo (cfr. Col 1, 18-20; 1Cor 15, 24,28). Allora, nella nuova Gerusalemme che discende dal cielo, si realizzeranno i cieli nuovi e la terra nuova nei quali avrà stabile dimora la giustizia e si godrà in eterno la pienezza della pace (cfr. Ap 21, 1-4).

Nel frattempo, la pace, che scende come dono e benedizione sulla comunità di coloro che hanno accolto il messaggio di Pasqua, si presenta come imperativo etico per la Chiesa e per i cristiani (cfr. Mc 9, 50; 2Cor 13, 11; 1Ts 5, 13; 1Pt 3, 11; 2Pt 3, 14). Essa va vissuta non solo come rapporto dentro la Chiesa, ma anche come rapporto pacifico con tutti (cfr. Rm 14, 19); si deve accompagnare inscindibilmente con la giustizia (cfr. Gc 3, 17-18); va annoverata tra i frutti della vita nuova prodotta dallo Spirito Santo (cfr. Gal 5, 22); unita alla giustizia e alla gioia, costituisce l’essenza stessa del Regno di Dio (cfr. Rm 14, 17).

2. Ai fondamenti di una visione cristiana della pace

Dall’intera rivelazione biblica, la pace appare come il segno visibile dell’alleanza di Dio con il suo popolo; essa parte dal Signore, ma si realizza pienamente solo quando gli uomini ricercano la fedeltà a lui e la giustizia, ossia quando essi vivono i valori di solidarietà, fraternità, comunione, servizio, amore a livello personale e insieme sociale e politico. La pace è “mistero”, cioè è dono di Dio. Lo shalòm, inteso nella sua pienezza neotestamentaria è dono di Gesù: non è prodotto dall’ingegno umano, dallo sforzo dei politici, dai trattati internazionali, da tutte le persone di buona volontà; esso è legato alla regalità divina, è dono messianico che viene dall’alto. La pace di Dio è anzitutto pace con Dio (cfr. Is 27, 5; Rm 5, 1): Dio e shalòm sono strettamente uniti tra loro e shalòm è dono escatologico di Gesù, frutto della sua morte e risurrezione (cfr. Gv 20, 19.21). Perciò shalòm non può significare soltanto assenza di guerra, tranquillità esteriore, equilibrio, e neppure soltanto prosperità, ricchezza, progresso; né può significare solamente una certa consolazione interiore, quasi una pace psicologica, assenza di angoscia. Esso è, invece, il bene messianico che consiste, in primo luogo, nel perdono di Dio, nel fatto di sapere che Dio perdona i peccatori; consiste nella riconciliazione dell’umanità con Dio, nella figliolanza divina, nel superamento della paura della morte, nell’essere una cosa sola con Gesù, quindi nell’essere Chiesa, nel perdonare con Gesù i propri nemici, nell’offrire con Gesù e come Gesù perdono e pace a tutti. Il mistero della pace ha, quindi, a che fare, in negativo, con il perdono e, in positivo, con la figliolanza, la vita divina, l’immersione in Cristo, la vita eterna.

C’è, quindi, una pace del Regno di Dio, che si identifica con la salvezza piena e definitiva di chi si converte al Signore con tutto il cuore: la pace, infatti, nel suo senso più pieno e profondo, comporta una vita, una gioia, una riconciliazione che scavalcano le imprese umane e i desideri terreni e si attuano definitivamente nella casa del Padre, nel mondo rinnovato, nel regno eterno preparato per tutti i figli di Dio. Ma c’è anche una pace, che si potrebbe qualificare come “terrena”: è la pace sociale e civile, tra le nazioni e i popoli, è la pace che vince le guerre e i timori di guerra. Questa pace non è una pace puramente privata. Essa è sociale, universale, valida per qualunque società; è fondata sul riconoscimento dei diritti naturali ed essenziali della persona umana; si costruisce nel giusto appagamento dei bisogni di tutti: bisogni di vita, di amore, di libertà, di lavoro confacente alle proprie inclinazioni e adeguatamente retribuito, di benessere, di comunione, di Assoluto; è garantita non da istituzioni che necessitano di violenza, bensì dal superamento di ogni forma di violenza, compresa quella strutturale. È, quindi, una pace viva, creatrice, gioiosa, che nasce da rapporti ordinati con se stessi, con il prossimo, con Dio. Si esprime nella concordia di tutti sulle cose fondamentali, non semplicemente su quanto conviene ad alcuni gruppi privilegiati. Si concretizza nella partecipazione personale al potere di decisione che regola una società matura e democratica. Consiste nella distribuzione equa, a tutti e a ciascuno, dei beni fisici e morali donati dal Creatore all’intera umanità. Diviene scoperta e possesso di quei beni spirituali ultimi, assoluti, senza dei quali non c’è mai l’uomo veramente felice e in pace.

Una pace terrena così intesa e definibile come “opera della giustizia”, oltre ad essere il frutto dell’ordine sociale voluto da Dio, nasce dall’amore ed è frutto di quell’amore che va oltre quanto è in grado di assicurare la semplice giustizia (cfr. GS, 78). Più precisamente essa nasce da una serie di comportamenti dettati dalla giustizia e mossi dalla carità, dalla quale, a sua volta, trae motivo la giustizia. La pace, quindi, non nasce dalla paura di guerre atomiche o nucleari e nemmeno dalle tecnologie più avanzate o dal semplice sviluppo economico. Nasce dalla pace del cuore, dall’amore di Dio e del prossimo, dalla capacità di farsi prossimi. Nasce da un amore che si radica nella fratellanza universale, nella figliolanza di tutti rispetto a Dio Padre, inducendo ciascuno a identificare la volontà dei fratelli con la propria: è un amore di amicizia, espressivo, altruistico, concreto, manifesto, stabile, irrevocabile. Una pace così radicata nell’amore fa sì che tutti raggiungano la pienezza di ciò che desiderano, soprattutto di quel desiderio di Dio, intimo e pro- fondo, che è nel cuore di ogni uomo.

Come suggeriscono le parole di Gesù «vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi» (Gv 14, 27), tra lo shalòm di Dio, o pace del Regno, e la pace terrena c’è differenza. D’altra parte, però, c’è anche similitudine, altrimenti non sarebbe possibile usare lo stesso termine. C’è diversità e insieme c’è raccordo, in quanto l’una pace ha relazione con l’altra, pur se non si sovrappongono. La pace del Regno è realmente, anche se imperfettamente, anticipata e prefigurata in tutte quelle forme di pace che devono essere costruite sulla terra: dalla pace interiore delle coscienze, alla pace delle amicizie serene; dalla pace che allieta la convivenza familiare, alla pace che alimenta la collaborazione ai vari livelli della società; dalla pace che garantisce la vita di un popolo nel rispetto delle libertà civili, alla pace che assicura il progresso di tutti i popoli nella ricerca della giustizia e della fraterna cooperazione. Come scrive il Concilio Vaticano II, «la pace terrena, che nasce dall’amore del prossimo, è immagine ed effetto della pace di Cristo, che promana da Dio Padre» (GS, 78).

La pace terrena è, quindi, inscindibile dall’opera di Gesù Cristo: essa è “prodotta” (effectus) da Gesù Cristo e della pace di Cristo è figura; è, in altri termini, espressione storicamente condizionata di quel valore eterno ed assoluto che è la riconciliazione degli uomini con Dio, la redenzione, la vita nuova nella carità originata e continuamente plasmata dallo Spirito di Dio. In questo senso, il mantenimento e la promozione della pace sulla terra non sono una semplice opera buona strumentale rispetto alla vita divina ed eterna, ma sono, più radicalmente, il frutto diretto e l’espressione, la traduzione temporale e spaziale della vita redenta. Si dà, quindi, una continua osmosi tra la pace divina – che è pace del cuore e dello spirito, pace della coscienza e perdono dei peccati, grazia, preghiera, spirito delle beatitudini – e la pace terrena, che è pace sociale e civile, tra gli uomini e le nazioni.

Alla luce di tutte queste considerazioni, si può affermare che la pace è il più grande bene umano, perché è la somma di tutti i beni messianici. Essa non è solo assenza di conflitto, cessazione delle ostilità, armistizio. Non è neppure soltanto la rimozione di parole e gesti offensivi (Mt 5, 21-24), neppure solo perdono e rinuncia alla vendetta, o saper cedere pur di non entrare in lite (cfr. Mt 5, 38-47). La pace è frutto di alleanze durature e sincere, a partire dall’alleanza che Dio fa in Cristo perdonando l’uomo, riabilitandolo e dandogli se stesso come partner di amicizia e di dialogo, in vista dell’unità di tutti coloro che Egli ama. In virtù di questa unità e di questa alleanza ciascuno vede nell’altro anzitutto uno simile a sé, come lui amato e perdonato, e se è cristiano legge nel suo volto il riflesso della gloria di Cristo e lo splendore della Trinità. Può dire al fratello: «Tu sei sommamente importante per me, ciò che è mio è tuo; ti amo più di me stesso, le tue cose mi importano più delle mie. E poiché mi importa sommamente il bene tuo, mi importa il bene di tutti, il bene dell’umanità nuova: non più solo il bene della famiglia, del clan, della tribù, della razza, dell’etnia, del movimento, del partito, della nazione, ma il bene dell’umanità intera». Questa è la pace! Ogni azione contro questo bene comune, que sto interesse generale affonda le radici nella paura, nell’invidia e nella diffidenza. Genera i conflitti e nutre gli odi che causano le guerre. Ci vorrà una intera storia e superstoria di grazia per compiere questo cammino. Ma è questa la pace che è meta della vicenda umana.

3. La pace nell’odierno insegnamento della Chiesa

Nell’insegnamento della Chiesa, un posto certamente significativo e determinante è occupato dal Concilio Vaticano II e, in particolare, dal n. 78 della Gaudium et spes: vi possiamo riconoscere elementi di una vera e propria teologia della pace. In forma positiva e biblica, vi si afferma che la pace deve essere definita come «opera della giustizia»: frutto perfetto dell’ordine impresso da Dio nella società, che gli uomini devono attuare senza posa nella pace terrena, essa è il dono specifico del Cristo risorto, per cui la pace terrena è icona e conseguenza della pace di Cristo. Come tale va strettamente collegata con la giustizia, con la carità cristiana e con la fraternità universale.

Si tratta di un concetto di pace espresso dai padri conciliari sulla scorta di un insegnamento pontificio che, a partire dalla Pacem Dei munus di Benedetto XV fino a Pio XII, aveva ampiamente considerato il tema della pace e, in particolare, nella scia di quanto affermato da Giovanni XXIII nella Pacem in terris. In questa enciclica, la pace, anelito profondo degli esseri umani di tutti i tempi, è strettamente connessa con l’ordine stabilito da Dio: come tale esige la protezione e la promozione dei diritti della persona umana; si fonda sulla natura profonda dell’uomo; va costruita, nei rapporti interpersonali come in quelli tra le comunità politiche, sui pilastri della verità, della giustizia, dell’amore (o solidarietà operante) e della libertà; chiede di essere garantita dalla competente autorità politica; sollecita la costituzione di un nuovo ordine giuridico mondiale.

Un altro passaggio significativo è rappresentato dalla Populorum progressio di Paolo VI, la quale, nel quadro di una considerazione morale dello sviluppo, mette in stretto rapporto il tema della pace con quello dello sviluppo, fino ad affermare che «lo sviluppo è il nuovo nome della pace» (cfr. PP, 76-87).

Per parte sua, riprendendo e sviluppando l’insegnamento dei suoi predecessori, Giovanni Paolo II mette in luce la inscindibile connessione tra la pace e la solidarietà. Quest’ultima viene, infatti, presentata come «via alla pace e insieme allo sviluppo », nella convinzione che «la pace del mondo è inconcepibile se non si giunge, da parte dei responsabili, a riconoscere che l’interdipendenza esige di per sé il superamento della politica dei blocchi, la rinuncia a ogni forma di imperialismo economico, militare o politico, e la trasformazione della reciproca diffidenza in collaborazione» (SRS, 39). In questa stessa linea, presenta «la pace come frutto della solidarietà» (“opus hominum coniunctionis”: così in Acta Apostolicae Sedis!), con la sottolineatura che «il traguardo della pace, tanto desiderata da tutti, sarà certamente raggiunto con l’attuazione della giustizia sociale e internazionale, ma anche con la pratica delle virtù che favoriscono la convivenza e ci insegnano a vivere uniti, per costruire uniti, dando e ricevendo, una società nuova e un mondo migliore» (ibid.).

Insieme con questi testi merita di essere preso in considerazione anche l’ampio e articolato magistero pontificio espresso negli annuali messaggi per la Giornata mondiale della pace, iniziata da Paolo VI nel 1968. Sono messaggi che, di volta in volta e con accenti diversi, mettono in luce i compiti e le responsabilità delle più diverse persone – governanti, studiosi, insegnanti, operatori economici, operatori dei mass media, medici, uomini e donne del lavoro, genitori, ragazzi, ecc. – e che, in occasioni particolari, hanno sottolineato il ruolo specifico dei giovani (1985), dei credenti (1992), della famiglia (1994), della donna (1995). Vi troviamo elementi che concorrono a descrivere ciò che la pace non è. Non è pacifismo, né nasconde una concezione vile e pigra della vita (1968); non è solo tregua, semplice armistizio, prepotenza passata in giudicato, ordine esteriore fondato sulla violenza e sulla paura, equilibrio transitorio di forze contrastanti, braccio di ferro nella tensione immobile di opposte potenze (1973); non è neppure repressione e ignavia (1974) o equilibrio superficiale tra interessi materiali divergenti (1982). Nello stesso tempo e in positivo, questo magistero pontificio è ricco di indicazioni dai quali emerge il volto variegato e splendente della pace. Quale bene primario (1968), ideale dell’umanità e desiderio universale di tutti i popoli in ogni tempo e in ogni luogo (1974; 1987), esigenza fondamentale radicata nel cuore di ogni uomo (2000) e valore universale che non ha frontiere perché «corrisponde alle speranze ed alle aspirazioni di tutte le persone e di tutte le nazioni, dei giovani e dei vecchi, di tutti gli uomini e donne di buona volontà» (GMP86, 1), la pace è presentata come pienezza e gioia (1979), condizione e sintesi dell’umana convivenza (1973), espressione equivalente e perfettiva della civiltà (1977), suprema finalità etica e necessità morale derivante dall’esigenza intrinseca della convivenza (1974), proclamazione dei valori più alti e universali della vita, quali la verità, la giustizia, la libertà e l’amore (1968), sicurezza e ordine e, ancora più profondamente, come «un bene supremo della vita dell’uomo sulla terra, un interesse di primo grado, un’aspirazione comune, un ideale degno dell’umanità padrona di sé e del mondo, una necessità per mantenere le conquiste raggiunte e per raggiungerne altre, una legge fondamentale per la circolazione del pensiero, della cultura, dell’economia, dell’arte, un’esigenza ormai insopprimibile nella visione dei destini umani» (GMP69). Intesa anzitutto come un’idea, un assioma interiore, un tesoro dello spirito (1974) e come fortezza intelligente e vivente che dispiega continue energie di spirito e di azione (1978), essa appare come opera di giustizia e di amore (2002), tranquillità e pienezza dell’ordine e frutto indivisibile di relazioni giuste ed oneste ad ogni livello – sociale, economico, culturale ed etico – della vita umana su questa terra (1986).

In particolare, la pace – quale realtà che dipende fondamentalmente da Colui che conosce il cuore degli uomini e orienta e dirige i loro passi (1992) – si presenta come dono offerto agli uomini (1978): è dono di Dio, poiché viene da Dio come dal suo fondamento e dalla sua fonte e perché è Dio che chiama alla pace, la garantisce e la dona come “frutto della giustizia” e aiuta interiormente gli uomini a realizzarla o a ritrovarla; è dono affidato agli uomini, così da essere sempre anche una conquista e una realizzazione umana, perché Dio lo propone all’uomo per essere accolto liberamente ed attuato progressivamente mediante la sua volontà creatrice (1982). Né viene taciuto l’aspetto più luminoso della pace terrestre e temporale: essa è riflesso e preludio della pace celeste ed eterna, «risultato dell’attuazione del disegno di sapienza e d’amore, con cui Dio ha voluto instaurare relazioni soprannaturali con l’umanità», «il primo effetto di questa nuova economia divina, che chiamiamo la grazia» (GMP69).

Della pace così descritta, si possono rintracciare anche alcune note e caratteristiche. La pace è necessaria (1971; 1974): «È un’idea necessaria. È un’idea imperativa, un’idea ispiratrice. Essa polarizza le aspirazioni umane, gli sforzi, le speranze. Essa ha ragione di fine; e, come tale, sta alla base e sta al termine della nostra attività, sia individuale che collettiva» (GMP72). È doverosa: è un dovere della storia presente, è un dovere universale e perenne, è un dovere inderogabile dei responsabili delle sorti dei popoli e di ogni cittadino del mondo (1969; 1973; 1974; 1977); come tale «la Pace bisogna volerla. La Pace bisogna amarla. La Pace bisogna produrla. Dev’essere un risultato morale; deve scaturire da spiriti liberi e generosi» (GMP69). È possibile (1973; 1974; 1977; 1981; 2000), deve essere possibile (1973): lo è, se veramente voluta da ciascuno (1973; 1974); lo è se è considerata doverosa (1974); lo è perché inscritta nell’originario progetto divino (1994); lo è perché esiste in Cristo e per Cristo (1973).

Della pace si deve notare anche la dinamicità e insieme la precarietà: essa, infatti, «dev’essere non inerte e passiva, ma dinamica, attiva e progressiva a seconda che giuste esigenze dei dichiarati ed equanimi diritti dell’uomo ne reclamano nuove e migliori espressioni» (GMP73); è una continua conquista, un bene che va realizzato mediante sforzi incessantemente rinnovati (1981), è opera di una continua terapia (1976), non è mai né completa né sicura e ha bisogno di sostegno e di condizioni che la rendano sempre più stabile e duratura (1977). Va pure sottolineata la sua natura religiosa: l’aspirazione alla pace, infatti, è presente nelle diverse religioni, tanto da poter affermare che «una vita religiosa, se è autenticamente vissuta, non può non produrre frutti di pace e di fraternità, perché è nella natura della religione promuovere un vincolo sempre più stretto con la divinità e favorire un rapporto sempre più solidale tra gli uomini» (GMP92, 2).

Tra i fondamenti della pace, l’accento è posto soprattutto sulla intangibile e innata dignità della persona umana, dalla quale scaturiscono inviolabili diritti e rispettivi doveri (1974; 1998): è ferma e puntuale, infatti, la convinzione che «quando la promozione della dignità della persona è il principio-guida a cui ci si ispira, quando la ricerca del bene comune costituisce l’impegno predominante, allora vengono posti solidi e durevoli fondamenti all’edificazione della pace. Quando invece i diritti umani sono ignorati o disprezzati, quando il perseguimento di interessi particolari prevale ingiustamente sul bene comune, allora vengono inevitabilmente se minati i germi dell’instabilità, della ribellione e della violenza» (GMP99, 1). Alla dignità della persona umana si accompagnano, come altri fondamenti della pace, il rispetto della coscienza di ogni persona (1991) e la giustizia, intesa come culto verace e senso sincero dell’uomo (1972) e come virtù dinamica e viva che difende e promuove l’inestimabile dignità della persona (1998). Tutto ciò si connette, ulteriormente, con il fondamento dato dalla coscienza e dal “dogma” della fraternità umana universale, ossia dal «riconoscimento d’una incancellabile e felice eguaglianza fra gli uomini», che porta al rispetto e all’amore dovuto a ogni uomo, perché uomo, perché fratello, «fratello mio, fratello nostro» (GMP71). Ancora più radicalmente, il fondamento della pace va rintracciato nella verità: essa «è forza di pace perché concepisce, quasi per una forma di connaturalità, gli elementi di verità che sono nell’altro e che essa cerca di riunire» (GMP80, 5), perché «conserva alla pace tutte le sue reali possibilità» (ibid., 6), stimola a puntare sulle forze di pace nascoste negli uomini e nei popoli che soffrono, «avvicina gli spiriti» (ibid., 8), «rivela ciò che già unisce le parti, prima in contrasto tra loro» (ibid.), «fa indietreggiare le diffidenze di ieri e prepara il terreno per nuovi progressi nella giustizia e nella fraternità, nella coabitazione pacifica di tutti gli uomini» (ibid.), «rivela e compie l’unità dell’uomo con Dio, con se stesso, con gli altri» (ibid., 10).

Nella logica di quel realismo e, insieme, di quella profezia che contraddistingue gli interventi della Chiesa, i messaggi per la Giornata mondiale della pace si diffondono soprattutto nel descrivere le condizioni per la pace. Da un punto di vista più generale, si tratta di mettere in atto un’adeguata opera educativa: occorre educare sé stessi alla pace, perché essa comincia nell’interno dei cuori e bisogna prima conoscerla, riconoscerla, volerla e amarla per poterla poi esprimere e imprimere nella concretezza della storia (1970); occorre educare alla pace, trovando l’accordo su alcuni principi, elementari ma fermi, inventando un nuovo linguaggio di pace e nuovi gesti pace (1979). Si tratta pure di vivere un impegno da parte di tutti e di ciascuno nel volerla, difenderla e lavorare per essa, perché «la pace vive delle adesioni, sia pure singole ed anonime, che le persone le danno» (GMP74) e perché essa chiede di essere fatta, prodotta, inventata, creata con genio sempre vigilante e con volontà sempre nuova e instancabile (1975). Tutto ciò comporta una «interiorizzazione della pace», ossia di disarmare gli spiriti e di «dare alla pace, cioè agli uomini tutti, le radici spirituali d’una comune forma di pensare e di amare» (GMP75) e si attua mediante l’uso di armi morali (1976).

Da un punto di vista più particolare, una condizione per la pace consiste nel lavorare e operare per la giustizia (1972) da parte di ogni uomo e donna perché «la giustizia cammina con la pace e sta con essa in relazione costante e dinamica […]: quando una è minacciata, entrambe vacillano; quando si offende la giustizia, si mette a repentaglio anche la pace» (GMP98, 1). In questo orizzonte, si comprende l’importanza del rispetto dei diritti umani nella loro universalità e indivisibilità: sta qui il segreto della pace vera (1999), perché «là dove non vi è rispetto, difesa, promozione dei Diritti dell’Uomo […] non vi può essere vera Pace. Perché Pace e Diritto sono reciprocamente causa ed effetto uno dell’altro; la Pace favorisce il Diritto; e, a sua volta, il Diritto la Pace» (GMP69). L’operare per la giustizia comporta anche di lavorare per sconfiggere la povertà che, oltre ad essere un affronto alla dignità umana, rappresenta una indubbia minaccia per la pace (1993). In questo senso, la pace può crescere se si vive l’impegno ad amare i poveri, ribaltando quei presunti valori che inducono a cercare il bene solo per sé e dando spazio effettivo ad un autentico spirito di condivisione (1998).

Nella medesima direzione, occorre interpretare e vivere la solidarietà e lo sviluppo come chiavi per la pace: una solidarietà che comporta la responsabilità di edificare su ciò che ci rende una sola cosa, che chiede di promuovere effettivamente e senza eccezione l’uguale dignità di tutti come esseri umani e che spinge a vivere in armonia e a promuovere ciò che è bene per tutti e per ciascuno; uno sviluppo integrale, come sviluppo di ogni persona e dell’intera persona, che aiuta a raggiungere ciò che è bene per gli altri e per la comunità umana nella sua interezza (1987). Tutto ciò comporta anche sia un ripensamento dell’economia e una riconsiderazione dei modelli che ispirano le scelte di sviluppo dando spazio a una nuova cultura della solidarietà (2000), sia di assicurare una globalizzazione nella solidarietà, senza marginalizzazione (1998; 1999).

Le condizioni per l’edificazione della pace non possono, tuttavia, limitarsi all’operare per la giustizia. Occorre coniugare tra di loro giustizia e perdono, nella triplice convinzione che «la capacità di perdono sta alla base di ogni progetto di una società futura più giusta e solidale» (GMP02, 9), che «la vera pace, pertanto, è frutto della giustizia […]. Ma poiché la giustizia umana è sempre fragile e imperfetta, esposta com’è ai limiti e agli egoismi personali e di gruppo, essa va esercitata e in certo senso completata con il perdono che risana le ferite e ristabilisce in profondità i rapporti umani turbati» e che «il perdono non si contrappone in alcun modo alla giustizia» ma «mira piuttosto a quella pienezza di giustizia che conduce alla tranquillità dell’ordine» (ibid., 3). Offrire e ricevere il perdono nel rispetto della verità e nell’attuazione della giustizia si presenta così come premessa indispensabile per camminare verso una pace autentica e stabile: «Nessun processo di pace», infatti, «potrà essere mai avviato, se non si matura negli uomini un atteggiamento di sincero perdono. Senza di esso le ferite continuano a sanguinare, alimentando nelle generazioni che si succedono un astio interminabile, che è fonte di vendetta e causa di sempre nuove rovine» (GMP97, 1). Ciò comporta anche una «purificazione della memoria» (GMP01, 21), che renda capaci di rileggere con sentimenti nuovi quanto è avvenuto, «imparando proprio dalle esperienze sofferte che solo l’amore costruisce, mentre l’odio produce devastazione e rovina» (ibid., 3). Nel contempo, occorre dare spazio a quella riconciliazione degli animi, con Dio e tra di noi (1975) che, insieme con il perdono, si presenta come ulteriore condizione per la pace (1970) e come la strada da percorrere per superare le barriere dell’incomunicabilità (2001).

Un’altra importante condizione per la pace consiste nel rispetto della libertà: la vera libertà, infatti, è insieme radice e frutto della pace, il rispetto della libertà dei popoli e delle nazioni è parte integrante della pace e senza un rispetto profondo ed esteso della libertà la pace sfuggirà all’uomo (1981). Particolare rilievo riveste, in questo ambito, il rispetto e la promozione della libertà religiosa, punto di riferimento e, in certo modo, misura degli altri diritti fondamentali dell’uomo e ragion d’essere delle altre libertà, nella consapevolezza che essa, quale «esigenza insopprimibile della dignità di ogni uomo, è una pietra angolare dell’edificio dei diritti umani e, pertanto, è un fattore insostituibile del bene delle persone e di tutta la società, così come della propria realizzazione di ciascuno» (GMP88, preamb.), diventando per questo un elemento essenziale della pacifica convivenza degli uomini. Nella medesima linea occorre garantire, tanto sul piano legale quanto su quello delle relazioni umane, il rispetto della libertà di coscienza ordinata alla verità: è, infatti, cercando insieme la verità, nel rispetto della coscienza degli altri, che si può progredire sulle vie della libertà, che sboccano nella pace (1991). Si tratta, allora e insieme, di ricercare, restaurare e promuovere la verità (1980).

La difesa della vita è un’altra delle condizioni per edificare la pace: mediante l’osservanza di «tre imperativi essenziali» – difendere la vita, risanare la vita, promuovere la vita –, il riconoscimento del primato della vita apre la strada alla pace autentica, nella consapevolezza che la vita è il vertice della pace e che ogni delitto contro la vita, a iniziare da quelli contro la vita nascente, è un attentato contro la pace (1977; cfr. anche 1978; 2001). Alla difesa della vita va aggiunto il rifiuto di ogni violenza, nella convinzione che essa non è fortezza, ma è «l’esplosione di una cieca energia che degrada l’uomo il quale vi si abbandona, abbassandolo dal livello razionale a quello passionale», è realtà antisociale, «conduce alla rivoluzione, e la rivoluzione alla perdita della libertà» (GMP78). Né si deve tralasciare di coltivare il dialogo: esso, infatti, «è un elemento centrale e indispensabile del pensiero etico degli uomini […]. Suppone la ricerca di ciò che è vero, buono e giusto per ogni uomo, per ogni gruppo e ogni società […]; esige, in via preliminare, l’apertura e l’accoglienza […]; è la ricerca di ciò che è e resta comune agli uomini, anche in mezzo alle tensioni, opposizioni e conflitti […]; è la ricerca del bene con mezzi pacifici; è volontà costante di ricorrere a tutte le possibili formule di negoziati, di mediazioni, di arbitrato, per far sì che i fattori di avvicinamento prevalgano sui fattori di divisione e di odio» (GMP83, 6; cfr. anche 1986).

L’edificazione della pace richiede anche il rispetto delle minoranze attraverso lo sviluppo di una cultura basata sul rispetto degli altri e sulla accettazione, tutela e armonizzazione delle diversità, nella convinzione che la pace, da una parte, «esige un costruttivo sviluppo di ciò che ci distingue come individui e come popoli, di ciò che rappresenta la nostra identità» e, dall’altra, «richiede da parte di tutti i gruppi sociali, che siano o meno costituiti in Stato, una disponibilità a contribuire all’edificazione di un mondo pacifico» (GMP89, 3). Un’altra via necessaria per un mondo riconciliato, capace di guardare con serenità al proprio futuro, è costituita dal dialogo tra le differenti culture e tradizioni dei popoli: tale dialogo è «un’esigenza intrinseca alla natura stessa dell’uomo e della cultura» (GMP01, 10) e si presenta come «strumento privilegiato per costruire la civiltà dell’amore» in quanto «poggia sulla consapevolezza che vi sono valori comuni ad ogni cultura, perché radicati nella natura della persona» (ibid., 16). Tra le condizioni rientra anche il prendersi cura di tutto il creato, educandosi alla responsabilità ecologica e affrontando adeguatamente la questione ambientale, intesa come questione morale, nella consapevolezza che «la pace mondiale è minacciata […] anche dalla mancanza del dovuto rispetto per la natura, dal disordinato sfruttamento delle sue risorse e dal progressivo deterioramento della qualità della vita» (GMP90, 1).

Alle radici dell’azione per la pace sta poi sia la riscoperta dell’originaria vocazione di tutta l’umanità a essere un’unica famiglia, «in cui la dignità e i diritti delle persone – di qualunque stato, razza, religione – siano affermati come anteriori e preminenti rispetto a qualsiasi differenziazione e specificazione» (GMP00, 5), sia il rinnovamento del cuore, o conversione: è il “cuore” dell’uomo, infatti, che occorre rinnovare per rinnovare i sistemi, le istituzioni e i metodi; si tratta, perciò, di «ritrovare la chiaroveggenza e l’imparzialità insieme con la libertà di spirito, il senso della giustizia insieme col rispetto dei diritti dell’uomo, il senso dell’equità con la solidarietà mondiale tra ricchi e poveri, la fiducia reciproca e l’amore fraterno» (GMP84, 3). Né si deve tralasciare di dare ai bambini un futuro di pace, aiutandoli a crescere in un clima di autentica pace, combattendo tutto ciò che li sfrutta o non li rispetta, creando le condizioni perché possano ricevere in eredità dagli adulti un mondo più unito e solidale (1996); di sviluppare la collaborazione e il dialogo ecumenici e interreligiosi (1991; 1992; 1997); di dare spazio alla preghiera per la pace: essa, infatti, «infonde coraggio e dà sostegno a chiunque ama e vuol promuovere» la pace e «mentre apre all’incontro con l’Altissimo, dispone anche all’incontro col nostro prossimo, aiutando a stabilire con tutti, senza alcuna discriminazione, rapporti di rispetto, di comprensione, di stima e di amore» (GMP92, 4); come tale, «sta al cuore dello sforzo per l’edificazione di una pace nell’ordine, nella giustizia e nella libertà» (GMP02, 14).

4. Compiti delle religioni e dei cristiani

Tra gli altri temi, va adeguatamente indagato il rapporto tra le religioni e la promozione della pace. Storicamente parlando, mentre vanno ricordati gli innumerevoli esempi, fatti e gesti di pace promossi da uomini religiosi in tutto il mondo e nelle diverse epoche della storia, si deve anche riconoscere che non sono mancate circostanze nelle quali le religioni non sono state fautrici di pace, ma sono state anzi viste e interpretate come fattori di incomprensione, di contrapposizione e di conflitti. Non sembra, quindi, sufficiente dire “religione” per dire “pace”. Non solo nel senso che l’uomo, sempre incline al peccato e bisognoso di correzione, spesso non ascolta le parole dalla religione che professa con le labbra, ma anche nel senso che una religione non bene intesa può diventare uno strumento di forte identità, può incollarsi sulle identità nazionali ed etniche e rafforzarle nei loro istinti violenti: una identità religiosa forte, infatti, può condurre, se non è ben vigilata, a esaltazione di sé, disprezzo degli altri, fanatismo, fondamentalismo e intolleranza.

Tutto ciò è, però, negazione dell’autentico spirito delle religioni: esse non giustificano né la violenza né il terrorismo; devono anzi collaborare per il rispetto reciproco e per la pace e per uno sviluppo globale nella giustizia e nella solidarietà. Ne è indizio significativo, ad esempio, la pienezza di senso religioso e umano che la parola “pace” ha nella tradizione sia musulmana (has-Salam) sia ebraica (Shalòm), che collegano la pace con la presenza del regno di Dio e con l’obbedienza della fede e fanno dell’augurio di pace l’espressione quotidiana di saluto tra i fratelli di fede: a testimonianza che le grandi tradizioni religiose dell’umanità sono in grado di ispirare anche oggi la ricerca e la costruzione delle vie della pace tra gli uomini. Più profondamente, le religioni sono e devono essere strumento di pace perché, da una parte, spingono a guardare a un orizzonte ultimo, che sta oltre ed è distinto da quello nazionale, economico e politico e, dall’altra parte, unendo insieme i seguaci di nazioni diverse, spingono a legami di amicizia e di carità, di attenzione e di preoccupazione reciproca. Fa parte, infatti, della coscienza delle diverse religioni la convinzione che «Dio ama la pace e non vuole la guerra e chi invoca il nome di Dio scopre che il suo nome vuole dire pace. […] La pace è il nome di Dio e chi usa il nome di Dio per odiare l’uomo e per la violenza abbandona la religione pura» (Appello dei Capi religiosi presenti al XV Meeting internazionale della pace, Barcellona, 4 settembre 2001). Le religioni sono al servizio della pace perché in Dio si trova l’unione eminente della giustizia e della misericordia (cfr. Ai rappresentanti delle varie religioni del mondo) e, perciò, non possono diventare mai motivo di aggressione bellica, di odio e di sopraffazione: «Il ricorso alla violenza in nome del proprio credo religioso costituisce una deformazione degli insegnamenti stessi delle maggiori religioni. L’uso della violenza non può mai trovare fondate giustificazioni religiose né promuovere la crescita dell’autentico sentimento religioso» (GMP99, 6; cfr. Alla Curia romana per gli auguri natalizi). In questa linea, occorre operare instancabilmente da parte di tutti i credenti del mondo affinché «le convinzioni religiose non siano mai causa di divisione e di odio, ma solo e sempre sorgente di fraternità, di concordia, di amore» (Messaggio Urbi et Orbi, 31 marzo 2002, 3). Occorre, quindi, coltivare una interpretazione della religione e impartire un’educazione religiosa capaci di condurre a una identità forte, sicura, sincera, comunicativa, ma insieme pacifica, umile, dialogante, che sappia stimare gli altri senza confusione e senza eclettismi, che sappia dare concreta attuazione e visibilità a parole quali perdono, misericordia, mitezza e umiltà, che sono tra le parole più tipiche del linguaggio religioso.

Non si deve, tuttavia, dimenticare che la promozione e la realizzazione della pace si presenta come un cammino complesso, fatto di successive approssimazioni, bisognoso di interventi diversi e complementari. Va, quindi, evitata ogni semplificazione, anche se dettata da buona volontà e da sincero desiderio di pace: sia quella che non collega la pace con il bene morale anche nei suoi aspetti misteriosi e trascendenti e si limita a suggerire strategie, fatti politici, equilibri di forze; sia quella opposta che, non considerando la differenza tra la pace, come valore definitivo e meta non mai raggiunta pienamente in forma definitiva su questa terra, e le forme di pace che sono di volta in volta possibili nella convivenza umana, dà origine a espressioni perentorie e intransigenti di pacifismo. Si tratta piuttosto di accettare e vivere la fatica di dare concreta credibilità politica alla pace, mediante l’indicazione di tappe concrete, che corrispondono alle approssimazioni terrene realisticamente possibili del dono della pace.

In questo senso l’impegno cristiano viene sollecitato su due fronti: quello della responsabilità verso le forme possibili della pace e quello della profezia di quella pace definitiva, attesa come dono di Dio già adombrato nelle forme sempre più piene di pace, da costruire sulla terra. Occorre, anzitutto, lavorare per progetti concreti di pace, con il realismo di chi sa che la violenza, che purtroppo si scatena tra gli uomini, esige un contenimento e uno scoraggiamento, anche mediante forme di controminaccia e di legittima difesa: si apre qui tutta la riflessione intorno a temi quali, ad esempio, la produzione e l’uso degli armamenti, le forme di polizia internazionale, l’ingerenza umanitaria, il consolidamento degli strumenti internazionali di collaborazione, il dialogo e i negoziati. Nello stesso tempo, occorre far nascere e diffondere una profezia della pace, nella convinzione che la ricerca dei progetti concreti di pace è tanto più efficace quanto più è sostenuta da una visione piena della pace e che le prefigurazioni della pace possibili sulla terra si alimentano nella proclamazione biblica della pace, dono di Dio. Tale profezia della pace comporta uno sguardo lungimirante, che aiuta a rintracciare nel cuore dell’uomo le radici di quel male, che poi esplode nella violenza sociale e nella guerra; chiede di denunciare la mostruosità di una civiltà costruita sul benessere, sul piacere e sul potere a ogni costo e di una vita senz’anima e senza valori autentici; domanda di decifrare, valorizzare e sviluppare i segni positivi presenti nella storia; esige un cambiamento di vita e l’adozione di una nuova scala di valori; si esprime attraverso forme coraggiose di testimonianza, che scaturiscono dalla coscienza, scavalcano le ambiguità della situazione presente e, con luminosità esemplare, additano un cammino per il futuro; sollecita una professione di speranza.


Autore
Carlo Maria Martini

[Scheda autore ripresa da Dizionario di dottrina sociale della Chiesa. Scienze sociali e Magistero, 2004, e non aggiornata]

Laureato nel 1958 in Teologia fondamentale presso la Pontificia Università Gregoriana di Roma e nel 1965 in Sacra Scrittura. Docente di Critica testuale presso il Pontificio Istituto Biblico di Roma dal 1962, è chiamato qualche anno dopo a far parte del comitato per la pubblicazione del The Greek New Testament. Rettore del Pontificio Istituto Biblico (1969) e quindi della Pontificia Università Gregoriana (1978). Nel 1979 Giovanni Paolo II gli affida la cattedra di arcivescovo di Milano: consacrato vescovo il 6 gennaio 1980, compie il solenne ingresso nella diocesi il 10 febbraio 1980. Creato nel frattempo cardinale, dal 1986 al 1993 è presidente del Consiglio delle Conferenze episcopali europee. È insignito della laurea honoris causa dalla Pontificia Università Salesiana di Roma (1989) e dall’Università Cattolica del Sacro Cuore (2002). Nel 2000 riceve il premio “Principe de Asturias” in Scienze sociali a Oviedo; nello stesso anno è nominato accademico onorario della Pontificia Accademia delle Scienze. Dal 2002 è Arcivescovo emerito di Milano. Tra le sue principali e più recenti pubblicazioni: Sulla giustizia, Mondadori, 1999; Orizzonti e limiti della scienza, Cortina, 1999; La pratica del testo biblico, Piemme, 2000; Sul corpo, Centro Ambrosiano, 2000; Figli di Crono, Cortina, 2001; Il caso serio della fede, Piemme, 2002.