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Dizionario di dottrina
sociale della Chiesa

LE COSE NUOVE DEL XXI SECOLO

Bene comune

di Lorenzo Ornaghi

1. Il bene comune – concetto centrale nella concezione e nella valutazione cristiana delle finalità e della concreta realtà di ogni convivenza sociale, economica, politica – è idea-cardine della dottrina sociale. A tale idea sono strettamente connessi tutti quegli altri concetti (da giustizia a sviluppo economico, da solidarietà a popolo, da pace a democrazia), con cui la Chiesa applica i principi del proprio patrimonio dottrinale alla comprensione del mondo contemporaneo e alla sollecitazione ad agire autenticamente da cristiani dentro le molteplici forme di comunità in cui viviamo.

Già nella lettera enciclica Immortale Dei del 1° novembre 1885, Leone XIII osservava come fosse «necessario dunque che la società civile, istituita per l’utilità comune, nel perseguire la prosperità dello Stato provveda a che i cittadini, nel loro cammino verso la conquista di quel sommo e immutabile bene al quale naturalmente tendono, non solo non vengano in alcun modo ostacolati, ma siano favoriti con ogni opportunità» (ID). Sin dai primi documenti della dottrina sociale, il bene comune traccia la linea di maggiore continuità e coerenza tra la cura pastorale della Chiesa per le forme di convivenza “particolari” – siano esse la comunità statale, o nazionale, ovvero la società civile o le associazioni intermedie – e quella per la convivenza, articolata e interpretabile in termini “universali”, della comunità internazionale (o, come ormai è frequente e appropriato dire, del sistema globale).

Lungo questa linea di continuità e coerenza, il Magistero temporalmente a noi più vicino – dalla Mater et magistra e dalla Pacem in terris, alla Gaudium et spes e alla Centesimus annus – considera ed esplicita diffusamente le caratteristiche essenziali del bene comune, sottolineando soprattutto due fondamentali aspetti, distinti ma complementari, su cui conviene soffermare subito l’attenzione.

Il primo si richiama alla natura degli esseri umani, creati da Dio non perché vivano isolati, ma affinché costituiscano delle unità sociali (cfr. GS, 32). Pertanto, proprio per il fondamento sociale dell’esistenza umana, il bene di ciascuna persona risulta natualmente interconnesso con il bene dell’intera comunità. Gli obblighi di giustizia e amore saranno pienamente adempiuti solo quando ciascun individuo avrà contribuito al bene comune secondo le sue possibilità e alla luce dei bisogni altrui (cfr. GS, 30). A differenza di quanto sostiene il presupposto di ogni concezione utilitarista, sintetizzato dalla formula “il maggior benessere per il maggior numero”, il bene comune non è costituito dalla semplice somma aritmetica dei vantaggi e degli interessi individuali: esso deve invece essere interpretato come un bene sociale, un bene che le persone condividono grazie alla loro attiva partecipazione alla vita comunitaria. In questo senso, la Gaudium et spes specifica che il bene comune si concreta nell’«insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono tanto ai gruppi quanto ai singoli membri di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più speditamente» (GS, 26).

Ne consegue allora che, mentre in un’ottica utilitarista la distribuzione e la produzione di beni risultano compatibili con l’esclusione di alcune persone, o anche di ampie fasce di esseri umani, dal godimento dei benefici correlati, nella prospettiva della dottrina sociale l’accento è posto sulla “non escludibilità”, o, per essere più precisi, sulla tendenziale “inclusione” di tutti. Questa caratteristica “universalizzante” del bene comune, se è ormai sperimentata da lungo tempo nella comunità particolare di uno Stato, diventa ancora più evidente e necessaria nel sistema internazionale, proprio per la «crescente consapevolezza dell’interdipendenza tra gli uomini e le Nazioni» (SRS, 38). Quando non siano inseriti nella prospettiva di perseguimento del bene comune, gli stessi vantaggi e miglioramenti ottenuti con il progresso sociale, con lo sviluppo dell’economia e dei mezzi di comunicazione, rischierebbero di alimentare vecchie o nuove forme di diseguaglianza, di moltiplicare le situazioni di ingiustizia, di trasformarsi in vincoli alla naturale libertà umana. L’interdipendenza crescente tra uomini e nazioni è invece proprio la condizione da cui muovere, per realizzare un’effettiva solidarietà, la quale «non è un sentimento di vaga compassione o di superficiale intenerimento per i mali di tante persone, vicine o lontane», bensì rappresenta «la determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune: ossia per il bene di tutti e di ciascuno perché tutti siamo veramente responsabili di tutti» (ibid.).

La partecipazione di ciascuno tanto all’opera quanto ai benefici della vita comunitaria conduce all’altro dei due fondamentali aspetti, sottolineati in modo particolare dai più recenti documenti. Ed è qui che all’idea-cardine di bene comune si connettono anche il concetto di politica e quello di potere politico, inteso soprattutto nel suo carattere di responsabilità e servizio (officium). Il perseguimento del bene comune può infatti richiedere la necessità di un intervento attivo da parte dei poteri pubblici, a tutela dell’effettiva attuazione delle condizioni che devono consentire a ciascuno di perseguire nel modo più spedito e più pieno la propria perfezione. Così, nella Mater et magistra viene ricordato che «nell’epoca odierna l’attuazione del bene comune trova la sua indicazione di fondo nei diritti e nei doveri della persona. Per cui i compiti precipui dei poteri pubblici consistono, soprattutto, nel riconoscere, rispettare, comporre, tutelare e promuovere quei diritti; e nel contribuire, di conseguenza, a rendere più facile l’adempimento dei rispettivi doveri » (MM, 55.60). E nella Pacem in terris la questione viene posta in stretta relazione al necessario riconoscimento delle libertà personali da parte dell’autorità politica, in quanto «la ragione di essere dei poteri pubblici è quella di attuare il bene comune, di cui elemento fondamentale è riconoscere quella sfera di libertà e assicurarne l’immunità» (PT, 57).

La concezione specificamente moderna dei diritti di libertà viene pertanto invocata al fine di determinare quali siano le condizioni che consentono e favoriscono il coerente perseguimento del bene comune. Tali diritti sono considerati come i requisiti minimi di una società ben ordinata, in cui sia pienamente riconosciuta la dignità della persona umana e in cui vengano assicurate le condizioni basilari affinché ciascuno trovi le possibilità della propria realizzazione. Come osserva ancora l’enciclica giovannea del 1963: «In una convivenza ordinata e feconda va posto come fondamento il principio che ogni essere umano è persona, cioè una natura dotata di intelligenza e di volontà libera; e quindi è soggetto di diritti e di doveri che scaturiscono immediatamente e simultaneamente dalla sua stessa natura: diritti e doveri che sono perciò universali, inviolabili, inalienabili» (ibid., 5). Tali diritti essenziali, indicati solennemente, consistono nel diritto all’esistenza e ad un tenore di vita dignitoso, nei diritti relativi ai valori morali e culturali, nel fondamentale diritto alla libertà religiosa, nel diritto alla libera scelta del proprio stato, nei diritti economici e nei diritti politici, di riunione e associazione (cfr. ibid., 5-11).

Nel prestare la massima attenzione a questi due aspetti, la dottrina sociale viene così a calare nella concreta e attuale realtà del vivere associato tra persone e tra comunità politiche l’idea di bene comune, che potrebbe altrimenti rischiare di apparire astratta o a-storica (se non addirittura anti-storica, sfidata com’è e, in apparenza, continuamente contraddetta dal corso degli avvenimenti umani). Da un lato, l’impegno di solidarietà verso la comunità che è richiesto a ogni persona – poiché, come già sottolineava Pio XI nella Divini Redemptoris, fa parte dell’essenza propria «della giustizia sociale l’esigere dai singoli tutto ciò che è necessario al bene comune » (DR, 51) – risponde a quel bisogno di coesione e legittimazione di ogni convivenza politica, di cui si alimentano senso di appartenenza e identità. Dall’altro lato, la rivendicazione del necessario riconoscimento della libertà e dignità di ciascuno da parte dell’autorità politica rispecchia sia l’affermazione di un principio originario della concezione cristiana riguardo ai rapporti col potere pubblico, sia il criterio che – come vedremo più avanti – ha guidato l’atteggiamento della Chiesa nei confronti non solo dei regimi totalitari del Novecento, ma anche delle possibili degenerazioni delle molteplici forme di individualismo all’interno delle democrazie di mercato dell’Occidente.

In questo senso, assai significativamente la costituzione pastorale Gaudium et spes pone la promozione del bene comune – quale, per effetto dell’interdipendenza sempre più stretta tra popoli e nazioni, «bene comune dell’intera famiglia umana» e «insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono tanto ai gruppi quanto ai singoli membri di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più speditamente» (GS, 26) – al centro stesso del capitolo II che, intitolato «La comunità degli uomini», precede il capitolo dedicato a «L’attività umana nell’universo».

2. Il concetto di bene comune costituisce un’eredità che, dalle sue origini nel pensiero greco, viene trasmessa da un’età storica alla successiva, da un sistema culturale e sociale a quello posteriore, di generazione in generazione. Benché in Aristotele non si registri un’espressione del tutto equivalente a bene comune, proprio nella Politica si possono rintracciare le radici teoriche e concettuali di una tale nozione. Aristotele sottolinea come ogni comunità sia costituita sempre in vista del bene più alto, identificabile con quella vita della polis in cui solo può realizzarsi la forma di esistenza migliore degli esseri umani: «La comunità che risulta di più villaggi è la polis, perfetta, che raggiunge ormai, per così dire, il limite dell’autosufficienza completa: formata per rendere possibile la vita, in realtà esiste per rendere possibile una vita felice» (Politica, 1252, b28ss). Aristotele spiega inoltre per quali ragioni perseguire il bene della polis sia assai più nobile che ricercare il bene individuale: «Se infatti è identico il bene per il singolo e per la città, sembra più importante e più perfetto scegliere e difendere quello della città; certo esso è desiderabile anche quando riguarda una sola persona, ma è più bello e più divino se riguarda un popolo e la città» (Etica Nicomachea, 1094, b7ss).

Se echi distinti di una tale riflessione si avvertono in Agostino, quando nella determinazione del concetto di popolo egli allude alla utilitatis communio e allo iuris consensus (De civitate Dei, l.II, c. 21), è certamente Tommaso d’Aquino a fornire, nel quadro della propria rilettura dell’aristotelismo politico, una trattazione organica del tema del bene comune. Tommaso recepisce in parte la concezione aristotelica della polis, intesa come comunità principale cui si rapportano le altre comunità umane, in quanto essa le comprende tutte. Anch’egli sottolinea infatti che il bene comune è superiore al bene individuale: «Il bene dell’uomo singolo non è l’ultimo fine, ma viene ordinato al bene comune» (S.Th., I-II, q. 90, a. 3). Inoltre, nella civitas e nel regnum l’Aquinate individua delle comunità perfette, poiché entrambe sono in grado di garantire la sufficienza di beni materiali e una vita felice e virtuosa: vale a dire, proprio ciò in cui per Tommaso consiste il bene comune. Del resto, il rilievo attribuito al raggiungimento effettivo del bene comune è tale, che anche le leggi ne devono fare il loro obiettivo essenziale: «Ogni legge è ordinata al bene comune», «è necessario che la legge riguardi propriamente l’ordine alla felicità comune» (S.Th., I-II, q. 90, a. 2).

Da parte di Tommaso, tuttavia, la recezione di Aristotele non può essere totale. L’Aquinate non può infatti seguire il filosofo greco sul terreno dell’individuazione del fine più elevato della vita umana nel bene della comunità politica. Questo bene, per Tommaso, è soltanto un fine ultimo in un ordine dato, mentre l’obiettivo più elevato cui devono essere indirizzati gli sforzi degli esseri umani deve essere riconosciuto in Dio: «L’uomo non è ordinato alla società civile in forza di tutto il proprio essere, e di tutti i suoi beni […] Invece l’uomo in tutto quello che forma il suo essere, il suo potere e il suo avere dice ordine a Dio» (S.Th.,I-II, q. 21, a. 4). In Tommaso, inoltre, il bene comune non può essere inteso esclusivamente in termini di benessere economico o di stabilità politica, e non riguarda perciò primariamente o esclusivamente comunità politiche particolari (siano esse regna o civitates) ed entità politiche sovrapersonali: esso, infatti, coinvolge prima di tutto la sfera personale e coincide con l’ideale del “bene vivere”, della felicità comune in quanto partecipata da tutti. Le leggi civili, in quest’ottica, devono costantemente mirare sia al perseguimento del bene comune, sia e contestualmente al rispetto dell’ordine divino cui esse sottostanno.

Una ripresa rilevante della riflessione tomista, applicata specificamente al campo della comunità politica ormai nella sua forma storica di “Stato moderno”, si deve a quella corrente interpretativa che va sotto il nome di “Seconda Scolastica”, e in particolare modo al gesuita Francisco Suarez (1548-1617). Con maggiore nettezza si precisa, in Suarez, l’appartenenza al bonum commune non soltanto del bonum communitatis (ossia iustitia et pax, insieme a tutto ciò che assicura l’ordine della vita comune), ma anche, esplicitamente, del bene dei singoli, in quanto il perseguimento di quest’ultimo non danneggi gli altri membri (felicitas singulorum ut sunt membra). Con Suarez si delinea altresì un concetto di “pubblico” legato alla finalità dello Stato di procurare ai suoi cittadini solo la «felicità della loro vita presente» (felicitas huius vitae praesentis): compito dello Stato è dunque di dedicarsi a educare buoni cittadini, mentre alla Chiesa spetterà l’educazione di uomini buoni. L’idea più innovativa di Suarez è tuttavia connessa alla sua opera nel campo del diritto delle genti, laddove egli individua un bonum commune omnium nationum, da lui definito anche come «bene comune del genere umano». Il vincolo, imposto dal rispetto del bene comune all’attività del legislatore interno ai singoli Stati, viene ora esteso e riconosciuto anche nel contesto delle relazioni internazionali, le quali si dovranno pertanto svolgere nel quadro del rispetto del preesistente bene comune dell’umanità.

3. Nonostante gli sviluppi favoriti dall’opera di Suarez (e poi dalla riflessione filosofica di Gottfried Wilhelm Leibniz, significativamente influenzato dal gesuita spagnolo), il pensiero moderno tende a una progressiva riduzione del ruolo del bene comune nella legittimazione e nella valutazione del funzionamento, oltre che delle concrete finalità, di una comunità politica. Talché, nei successivi svolgimenti delle dottrine moderne e delle teorie contemporanee, l’idea di bene comune sembra conoscere non solo un andamento carsico, ma anche una progressiva emarginazione e forse rimozione.

Le radici del tentato svuotamento euristico del bene comune (e, quanto ai contenuti indicati e diffusamente praticati, del suo oggettivo indebolimento) vengono spesso rinvenute in quella propensione dei “moderni”, volta a reputare la domanda relativa al sommo bene come ormai desueta perché connessa a un ruolo storicamente secondario, se non definitivamente superato. A questo proposito, non pochi studiosi continuano giustamente a osservare che il tema è rimasto centrale soltanto tra i pensatori di ispirazione cristiana, sia platonico-agostiniana (come Rosmini), sia aristotelico-tomistica (come Maritain), mentre proprio Tommaso d’Aquino rappresenta l’ultimo grande filosofo occidentale ad aver dedicato una specifica e organica trattazione al tema del bene. Il disinteresse nei confronti dell’idea di bene comune ha pertanto una delle sue cause principali in quella lunghissima crisi della nozione di “fine”, che la filosofia antica e medievale avevano considerato come equivalente al concetto di “bene”. E, via via che diventa più pronunciato il rifiuto a pensare la storia umana nei termini di una teleologia meta-temporale, tale disinteresse viene scandito dall’affermarsi del “politeismo” e “relativismo” dei valori, in cui sembra concludersi il processo di secolarizzazione avviato con l’età moderna.

A far sì che l’idea di bene comune venga ancor più avvolta nel silenzio e nell’oblio è però, dall’Ottocento sino ai nostri giorni, la conclusione di un processo già compiutamente identificato e rappresentato, nei suoi termini dottrinali, da Thomas Hobbes: vale a dire, il processo di divaricazione tra la politica e ogni forma di ideale morale, tra cui principalmente – non solo e non tanto nelle formulazioni teoriche, bensì e soprattutto nei convincimenti e nei comportamenti individuali e collettivi – il costante riferimento al bene della intera comunità politica.

Hobbes, per il quale – come scrive nel De cive – «ogni associazione si contrae o per utilità o per ambizione e, quindi, per amor proprio e non degli altri membri che ne partecipano», suggella infatti quella concezione che avrebbe finito con l’individuare nello Stato (inteso come persona ficta e artificiale, sovraordinata perché svincolata rispetto ai singoli cittadini) il depositario e lo strumento principale di attuazione delle condizioni di benessere dei sudditi. Da questo momento in avanti, non si assiste tanto a una sparizione del concetto di bene comune, ma si allarga piuttosto la forbice tra quell’idea del benessere della comunità (via via identificata sempre più con l’interesse dello Stato) e quella sfera dei diritti e delle libertà individuali, che trovavano invece nella tradizione aristotelico-tomista una compenetrazione essenziale e vitale. Se da un lato si assiste allo sviluppo di un filone di pensiero che, a partire da Spinoza, individua il fine della politica nella libertà dei cittadini («Finis rei publicae libertas est»), dall’altro la nozione di bene comune viene reinterpretata in chiave di limitazione dei diritti individuali e di sostanziale coincidenza tra la volontà dello Stato e la volontà generale. Lungo la seconda via, è probabilmente Rousseau a contribuire in modo sostanziale alla trasformazione del significato originario del bene comune, stabilendo una identità tra questa nozione e quella di volontà generale, giacché – come egli sottolinea con forza – «la volontà generale può dirigere le forze dello Stato solo secondo i fini che le sono propri e che si identificano col bene comune» (Contratto sociale, II, c. I).

Su questo binario continua a muoversi il percorso del concetto di bene comune per tutto l’Ottocento. Si assiste infatti, da un lato, al completo abbandono di un tale concetto sia da parte del pensiero liberale (e, in particolare, delle sue varianti più nettamente utilitariste, che ne appiattiscono il contenuto al solo livello del benessere o utilità sociale), sia da parte delle dottrine socialiste e anarchiche: a spingere verso questo abbandono sono principalmente l’impoverimento individualistico del concetto e la congiunta sopravvalutazione del fattore dell’economia, che, determinando pressoché ogni azione umana, riduce la persona ai suoi esclusivi interessi e bisogni economici. Dall’altro lato, la tradizione idealista tedesca, che trova in Hegel il proprio cardine, procede ulteriormente lungo il cammino della personalizzazione della figura dello Stato e dell’identificazione tra l’interesse di Stato e il bene della comunità. Infatti per Hegel, ancor più che per Rousseau, il bene d’uno Stato, inteso come realizzazione dell’unità storica di un popolo, ha «un diritto del tutto diverso dal bene del singolo»; conseguentemente, il dovere supremo dei singoli viene a coincidere con l’essere componente dello Stato, senza che l’interesse individuale, la sicurezza e la protezione della proprietà e della libertà personali possano rappresentare il fine dello Stato.

Si comprende allora perché la nozione stessa di bene comune sia stata risucchiata nelle spire – come è stato notato opportunamente da diversi studiosi – di quei processi storici per cui, nel Novecento, i regimi autoritari e totalitari nacquero e si consolidarono anche mediante una radicale deformazione dell’idea di bene comune, innaturalmente piegata a puntello ideologico dello Stato o del partito unico. E si comprende altresì come la stessa nozione, per converso, sia stata collocata dai regimi democratici in una posizione che continua a essere di second’ordine: più evocato e simbolicamente o retoricamente alluso, che perseguito e diffusamente praticato, il bene comune riesce con non troppa frequenza a innalzarsi sopra – e, nella sua durata temporale, ad andare oltre – gli interessi frazionali e contingenti, siano questi ultimi dei soli individui o di quei gruppi che, con diverso grado di potere e organizzazione, tra loro competono e magari confliggono nelle attuali poliarchie. Il risultato è pertanto che, quasi sempre, si volatilizzano proprio quegli aspetti “concreti”, la cui indicazione e realizzazione ha costituito il fine autenticamente politico, oltre che la più alta manifestazione di identità e coesione, di ogni comunità.

Di fronte alle grandi trasformazioni in atto non solo nel sistema internazionale, ma anche nei rapporti tra le istituzioni politiche e la società all’interno di ogni democrazia, è allora assai significativo che non pochi dei più recenti orientamenti delle scienze sociali tornino a guardare con rinnovato interesse all’idea di bene comune. Se le scienze sociali possono contribuire a indicare quei concreti elementi che sostanziano la realtà del bene comune (con riferimento alle attese e ai bisogni della persona, delle famiglie, dei gruppi nell’orizzonte dei probabili svolgimenti della democrazia e del welfare, ma anche in ordine all’azione di ciascuno Stato all’interno della comunità internazionale), per queste stesse scienze risulta sempre più essenziale quell’idea di bene comune, coltivata e continuamente richiamata dalla dottrina sociale.

Nell’attuale convergere tra le indicazioni della dottrina sociale e la ricerca delle scienze sociali si rispecchia, in definitiva, una necessità determinata innanzi tutto dalla realtà dei grandi cambiamenti in cui siamo immersi. È la necessità che il bene comune costituisca il più solido anello di congiunzione tra generazione e genera- zione, tra un’età presente che sta rapidamente mutando e quel futuro che intendiamo costruire dando un senso alle trasformazioni in atto.


Autore
Lorenzo Ornaghi

[Scheda autore ripresa da Dizionario di dottrina sociale della Chiesa. Scienze sociali e Magistero, 2004, e non aggiornata]

Rettore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, è professore ordinario di Scienza politica presso la Facoltà di Scienze politiche e direttore dell’Alta scuola di economia e relazioni internazionali (ASERI). La sua attività scientifica si è orientata in modo particolare allo studio dei seguenti temi: rappresentanza politica e organizzazione degli interessi, i rapporti tra sviluppo economico-sociale e trasformazioni del potere politico, neo-corporativismo e Stato, il sistema politico internazionale. Tra le sue principali pubblicazioni: Stato e corporazione, Giuffrè, 1984; Il concetto d’interesse, Giuffrè, 1984; Politica. Vocabolario, Jaca Book, 1996; Gruppi d’interesse, in Enciclopedia del diritto, Giuffrè, 1999; Stato, in Digesto delle discipline pubblicistiche, UTET, 1999. Ha recentemente pubblicato, con V.E. Parsi, Lo sguardo corto. Critica della classe dirigente italiana, Laterza, 2001 e ha curato La nuova età delle costituzioni. Da una concezione nazionale di democrazia a una prospettiva europea e internazionale, Il Mulino, 2000 e Globalizzazione: nuove ricchezze e nuove povertà, Vita e Pensiero, 2001. Ha coordinato la ricerca Verso la Costituzione europea, Il Mulino, 2001.