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Dizionario di dottrina
sociale della Chiesa

LE COSE NUOVE DEL XXI SECOLO

Fascicolo 2021, 2 – Aprile-Giugno 2021

Prima pubblicazione online: Giugno 2021

ISSN 2784-8884

DOI 10.26350/dizdott_000051

Relazione di cura e responsabilità medica: implicazioni giuridiche Therapeutic alliance and medical liability: legal implications

di Francesco Zecchin

Abstract:

ENGLISH

Negli ultimi decenni si registra una tendenza alla spersonalizzazione della cura che, anche in ragione dell’attuale temperie culturale, ha fra le sue dirette conseguenze l’aumento del contenzioso medico. Il contributo, dialogando col magistero della Chiesa, cerca di individuare le strade che sul piano del diritto privato possono favorire, nel mutato contesto economico-sociale, forme nuove di personalizzazione della relazione di cura e ridurre così il contenzioso.

Parole chiave: Relazione di cura, Responsabilità medica, Medicina difensiva, Diritto alla salute, Consenso informato, Persona
ERC: SH2_10

ITALIANO

Therapeutic alliance is in the last decades subject to a depersonalization process. One of the direct consequences is the increase in medical litigation. The writing, in dialogue with the Church’s Magisterium, attempts to identify how private law can promote new forms of personalization of medical treatment and thus reduce litigation.

Keywords: Therapeutic Alliance, Medical Liability, Defensive Medicine, Right to Health, Informed consent, Person
ERC: SH2_10

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La medicina fra antichità e cristianesimo

Nel Vangelo sono numerosi gli episodi nei quali si afferma il valore della cura degli ammalati, non solo nell’anima, ma già nel corpo. Questa attenzione si è sviluppata in uno dei contributi indiscussi del cristianesimo alla cultura umana. Non a caso, nel XVI secolo – come afferma lo storico Jean Delumeau – Roma era la città d’Europa, e senza dubbio del mondo, che contava più ospedali.

In un certo senso, il solco era già stato tracciato da Ippocrate, il quale descriveva la medicina come una tèchne (Gadamer 1993, 39 s.) ancor più delle altre a servizio della persona, senza discriminazioni in base all’estrazione sociale, al genere sessuale o allo status. Il contesto nel quale si muoveva il fondatore della scuola di Cos, tuttavia, rimaneva quello comune alle popolazioni dell’antichità, ossia fortemente legato all’idea per cui la guarigione faceva in qualche modo capo al divino, se non più come grazia rispetto ad una violazione del culto che attraverso la malattia portava all’esclusione dalla vita sociale, almeno nel senso di un equilibrio soprannaturale infranto che il medico doveva aiutare a ristabilire. Il ruolo di quest’ultimo, in termini ben più decisi di quanto si pensa oggi, era quindi concepito come secondario (Gadamer 1993, 41 s.), e del resto lo stesso Ippocrate vantava fra i suoi ascendenti dei sacerdoti-medici e si proclamava un discendente di Esculapio.

Certo, anche Gesù guarisce miracolosamente dei malati, ma distingue la vita terrena da quella eterna, la salus animarum dalla salus corporis. Qui sta lo specifico del cristianesimo, che ha permesso di superare la concezione idolatrica dell’ars medica, ancora molto diffusa in epoca romana, e farla passare, pur con qualche battuta d’arresto, dal livello soprannaturale a quello delle opere umane. Tanto è vero che essa ha smesso di essere appannaggio dei chierici, ai quali ad un certo punto venne addirittura fatto divieto di praticarla con scopo di lucro, fino ad essere esercitata soprattutto dai laici.

Malattia, relazione di cura e attività medica nella prospettiva cristiana

Il nesso con la religione non fu, però, eliminato, assunse una veste diversa, relativa al destinatario delle cure: “la malattia è più di un fatto clinico, medicalmente circoscrivibile; è sempre la condizione di una persona, il malato” (Francesco, Discorso alla Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri, 20 settembre 2019). Il trascendente, come Sofocle aveva già suggerito con riguardo alle scienze in generale, passò dal piano dell’attività terapeutica in sé a quello dell’essere umano inteso quale creatura di Dio da preservare, soprattutto quando versa in uno stato di infermità che lo rende prossimo alle sofferenze patite da Gesù, a sua volta fattosi prossimo alle sofferenze dell’uomo (cfr. Catechismo della Chiesa cattolica, 1992, 1503s. e Fratelli tutti, 2020, 4 s.). La malattia non è più un castigo, come per il cieco nato, ma una prova che permette di trovare se stessi, come per Giobbe, e il compito del medico diventa qualcosa di più ampio rispetto a quello che suggerisce la radice med, cioè ristabilire l’ordine o assicurarlo in un corpo malato. Non a caso, gli affetti da patologie senza rimedio iniziarono a non essere più isolati dal resto del mondo e, anzi, diventarono gradualmente coloro che per primi meritano di essere assistiti, come aveva fatto Gesù coi lebbrosi.

Fu proprio la caritas cristiana ad ispirare gli ospedali medioevali, il cui scopo era curare coloro che non potevano permettersi di pagare l’onorario di un medico personale. Nonostante l’assenza di una remunerazione, tale afflato suscitava in chi vi operava una certa attenzione verso il paziente, il quale a sua volta era indotto a consegnarsi nei confronti di mostrava una tale disponibilità. Insomma, tra il medico e il malato, fosse ricco o povero, si instaurava un rapporto di fiducia reciproca che, insieme ad altri fattori, era determinante per frenare l’istinto di rivalsa nell’ipotesi in cui primo avesse commesso un errore.

Società di massa, diritto alla salute, sviluppo tecnologico e rischio di anonimia della cura

Tale schema è rimasto sostanzialmente in auge sino all’impennata demografica realizzatasi a cavallo tra XIX e XX secolo, alla quale può essere in buona parte ricondotta la tendenza verso una certa spersonalizzazione della cura. La necessità di assistere un numero sempre più elevato di persone, difatti, ha indotto anche nella prassi una concezione quasi materialistica del malato, che ha finito per omologare e ridurre allo stretto necessario il contenuto del rapporto medico-paziente.

Il tema della relazione di cura è riemerso con le costituzioni del dopo Auschwitz, che hanno posto agli Stati moderni l’obiettivo di tutelare la salute di ogni individuo considerato nella sua unicità. In tale ottica, lo sviluppo tecnologico, che ha certo migliorato, facilitato e velocizzato lo svolgimento delle prestazioni, aumentando così le possibilità di garantire un’assistenza sanitaria di alta qualità a sempre più persone, ha però reso in buona parte superfluo quel tradizionale dialogo che, se immediatamente permetteva al medico di individuare la patologia e al malato di sentirsi accolto nella mani di un esperto, nella prospettiva dell’itinerario di cura era l’occasione privilegiata per instaurare un rapporto personale (Gadamer 1993, 136 s.).

I problemi maggiori si registrano soprattutto con riferimento alle prestazioni, ambulatoriali e ospedaliere, erogate dalle strutture sanitarie, giacché in questi casi i soggetti coinvolti, di regola, nemmeno si scelgono l’un l’altro ed entrano in contatto provvisoriamente, dato che normalmente il paziente cambierà di visita in visita il suo interlocutore. Il tutto, peraltro attraverso alla mediazione della struttura sanitaria, nei confronti della quale il paziente si sente in qualche modo “creditore” in ragione delle imposte che versa. Ne deriva che queste relazioni di cura non vengono più percepite dal malato come un af-fidarsi a quel determinato professionista o a una équipe, ma assumono un forte connotato, per così dire, anonimo.

I nuovi goals della medicina e le ricadute sul piano della responsabilità del medico

L’esigenza di raggiungere un equilibrio fra i tradizionali ends della medicina e i goals che ad essa sono imposti dalle moderne social constructions (Pellegrino 1999, 58) ha, quindi, significato l’affievolimento della dimensione relazionale della cura. In definitiva, l’aziendalizzazione, per certi aspetti necessaria, dei servizi sanitari, “che ha posto in primo piano le esigenze di riduzione dei costi e razionalizzazione dei servizi, ha mutato a fondo l’approccio alla malattia e al malato stesso, con una preferenza per l’efficienza che non di rado ha posto in secondo piano l’attenzione alla persona, la quale ha l’esigenza di essere capita, ascoltata e accompagnata, tanto quanto ha bisogno di una corretta diagnosi e di una cura efficace” (Francesco, Discorso all’Associazione Cattolica Operatori Sanitari, 17 maggio 2019).

Fra le dirette conseguenze di tale cambiamento vi è l’estrema facilità ad esperire un’azione di responsabilità quando, a seguito della cura, la propria condizione psico-fisica non è migliorata o addirittura registra un peggioramento. D’altra parte, se si è stati sottoposti a una girandola di interlocutori con nessuno dei quali si è effettivamente instaurato un rapporto di fiducia che va oltre la dimensione squisitamente professionale, e tenuto conto del fatto che l’atteggiamento verso i medici non è più quello della “venerazione”, poco o nulla si frappone all’intentare un giudizio di responsabilità. Tanto più che viviamo nell’era della cosiddetta blame culture, in base alla quale, secondo le parole di Lord Templeman, “for every mischance in an accident-prone world someone solvent must be liable in damages”. A partire dagli anni Novanta dello scorso secolo la cause in ambito sanitario sono, infatti, aumentate esponenzialmente.

Medicina difensiva, spesa pubblica e tentativi inefficaci di riforma della responsabilità medica

La risposta degli operatori del settore si è declinata nella cosiddetta medicina difensiva: attraverso la prescrizione di un numero di esami superiore rispetto al necessario si cerca di precostituirsi uno strumento di difesa nel caso si fosse coinvolti in una lite. Ciò ha contribuito in modo significativo all’aumento vertiginoso della spesa pubblica sanitaria e molti ordinamenti europei hanno cercato di farvi fronte, riformando le regole della responsabilità medica, che nel tempo la giurisprudenza aveva rimodulato in termini eccessivamente favorevoli al paziente. In Germania e in Francia si è intervenuto esclusivamente sulla distribuzione dell’onere della prova, differenziandolo in base alle caratteristiche della prestazione e all’esperienza del medico; il nostro legislatore, invece, ha introdotto una serie di regole che, toccando la sostanza del rapporto di cura, dovrebbero spostare sulla struttura sanitaria il peso economico del danno subito dal paziente (Legge 8 marzo 2017, n. 24). Più nel dettaglio, la responsabilità del medico viene ex imperio qualificata come aquiliana, mentre quella della struttura sanitaria rimane contrattuale, ma dato che la prima attribuisce al paziente un onere della prova ben più pesante della seconda, questi naturalmente rivolgerà la propria domanda risarcitoria nei confronti della struttura piuttosto che del medico.

Sennonché, tutto ciò riguarda la fase in cui la controversia è già in atto, e per giunta nella versione italiana – a meno di un’interpretazione che preservi la realtà dei fatti – rischia di essere controproducente (Castronovo 2020, 852 s.), anche nella prospettiva qui analizzata: attribuire alla responsabilità del medico le regole che riguardano le ipotesi di un danno cagionato da un soggetto estraneo, come nel caso di un incidente stradale, significa in fondo legittimare a livello legislativo l’anonimia della cura e la tendenza, che da essa abbiamo visto deriva, ad agire in giudizio nei casi di malpractice.

Ritorno a una relazione di cura e responsabilità medica: magistero della Chiesa, diritto pubblico e diritto privato

Un’alternativa migliore e di respiro più lungo sarebbe stata quella di incidere sul vero nodo della questione, ossia appunto la qualità del rapporto fra il medico e il paziente. Invero, con il ritorno, pur secondo il mutato quadro socio-economico, ad una effettiva “relazione interpersonale di fiducia e coscienza” – per usare l’espressione della Nuova carta degli operatori sanitari (2016) – gli errori forse diminuirebbero, perché il medico sarebbe naturalmente indotto ad una maggiore attenzione, e comunque non sarebbero affrontati secondo una logica antagonista che soffia a favore della litigiosità.

Anche per il magistero della Chiesa si tratta “di stabilire un patto tra i bisognosi di cura e coloro che li curano; un patto fondato sulla fiducia e il rispetto reciproci, sulla sincerità, sulla disponibilità, così da superare ogni barriera difensiva, mettere al centro la dignità del malato, tutelare la professionalità degli operatori sanitari e intrattenere un buon rapporto con le famiglie dei pazienti” (Messaggio per la XXIX giornata mondiale del malato, 2021, 4).

In questa direzione sarebbero certamente utili interventi sul piano del diritto pubblico che portassero ad un aumento del personale e delle strutture sanitarie tali da permettere di rivedere i protocolli di gestione nel senso di una riduzione del numero di pazienti assegnati ai reparti e di una attribuzione stabile del malato ad un professionista sino al completamento della cura. Ma anche il diritto privato, in realtà, conosce almeno uno strumento che potrebbe favorire l’instaurarsi di un vero rapporto personale di cura, ed è il consenso informato. Nella sua versione più genuina, che risale alla tradizione ellenistica, esso invero ha come scopo proprio quello di superare sia la visione paternalistica sia quella libertaria, favorendo una effettiva relazionalità tra paziente e medico che culmina nell’assenso del primo alla proposta elaborata, tenendo conto del caso specifico, del secondo.

Il valore del consenso informato tra forma e sostanza

Non a caso, la legislazione più recente, ossia la Legge 22 dicembre 2017, n. 219, fa esplicitamente parola di “relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico che si basa sul consenso informato nel quale si incontrano l’autonomia decisionale del paziente e la competenza, l’autonomia professionale e la responsabilità del medico” (art. 1, co. 2) e stabilisce che i medici debbano essere formati anche “in materia di relazione e comunicazione col paziente” (art. 10). Il problema sta nel fatto che spesso, forse anche in ragione di un lessico normativo non del tutto appropriato che rimanda all’habeas corpus e a un’idea di auto-proprietà della persona, quello che formalmente appare come un con-senso, nella realtà rischia di essere un mono-senso. Il pericolo dell’unilateralità, in altre parole, si verifica non solo nella direzione di una “tirannia” della libertà morale del paziente rispetto a quella del medico, ma pure in quella di un tecnicismo condito di burocrazia, che di fatto impedisce al malato, in quanto tale spesso già psichicamente indebolito, di interloquire consapevolmente col professionista (Nicolussi 2018, 65). Ne deriva che la comunicazione di cui parlano la legge 219/17 e, più diffusamente, il titolo IV dell’attuale Codice di deontologia medica si risolve, tradendo la valenza etimologica della parola, in mera informazione (Di Rosa 2019, 31), giacché il paziente si trova, senza reali alternative, a firmare una serie di moduli che finiscono per fargli subire passivamente l’azione altrui. Addirittura, in alcuni casi il tutto avviene in via elettronica, quindi a distanza e senza neanche un interlocutore qualificato in grado di fugare dubbi o perplessità. Il risultato è che il consenso informato diviene, per il medico, uno strumento di difesa nel caso di un giudizio di responsabilità, per il paziente, una leva su cui poggiare per dimostrare che la relazione era puramente formale e improntata alla logica del puro scambio.

Prospettive di riforma: nuove forme di personalizzazione della cura

Da questo punto di vista, mentre nel dibattito scientifico e anche all’interno del magistero della Chiesa si registrano numerosi contributi dedicati ai casi di confine, come quelli relativi al fine vita, il terreno è meno arato con riguardo al consenso informato nelle prestazioni, per così dire, routinarie, le quali invece coinvolgono un gran numero di persone e rappresentano la parte più cospicua del contenzioso in tema di responsabilità medica. Sul piano del diritto privato, in particolare, occorre elaborare nuovi protocolli che, nella chiave di una tutela della persona malata e non della salute in generale, indichino stili di comportamento che favoriscano, pur in un quadro fortemente tecnologizzato, il sorgere di un vero e proprio dialogo fra paziente e medico (Gadamer 1993, 137 s.), che è il presupposto di quella che è stata chiamata “convenzione terapeutica” (Nicolussi 2018, 63). Questa dovrebbe essere il più possibile non massificata e parametrata sulle caratteristiche del singolo paziente, vale a dire tener conto, come la giurisprudenza non solo italiana suggerisce, delle sue condizioni psico-fisiche, del suo livello di istruzione, dell’età, della cultura di provenienza, della conoscenza o meno della patologia e dei trattamenti per farvi fronte per ragioni professionali o biografiche. In tale direzione, ad esempio, l’utilizzo di formulari standard dovrebbe essere il più possibile limitato, favorendo confronti verbali che sfruttino le potenzialità che la tecnologia moderna mette a disposizione. In definitiva, si tratta di trovare nuovi strumenti in grado di incanalare la condizione di malattia entro la logica della relazione, passando da un consenso informato basato sull’event model ad uno fondato sul process model. Chi ha bisogno di cure sarebbe in questo modo trattato nel rispetto della sua dignità e forse guarderebbe l’errore, non solo relativo al consenso informato, di chi in tal senso si è prodigato con minor severità, se non con indulgenza.


Bibliografia
• Castronovo C. (2020), Swinging malpractice. Il pendolo della responsabilità medica, «Europa e diritto privato», 848 s.
• Di Rosa G. (2019), La relazione di cura e di fiducia tra medico e paziente, in Nuove leggi civili commentate, 26 s.
• Gadamer H. G. (1994), Dove si nasconde la salute, Raffaello Cortina Editore.
• Nicolussi A. (2018), La legge n. 219/2017 su consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento: il problema e le risposte della legge, «Teoria e critica della regolazione sociale», 57 s.
• Pellegrino E. D. (1999), The Goals and Ends of Medicine: How Are They to be Defined? The Goals of Medicine, the Forgotten Issues in Health Care Reform, Georgetown University Press, 55 s.


Autore
Francesco Zecchin, Università Cattolica del Sacro Cuore (francesco.zecchin@unicatt.it)