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Dizionario di dottrina
sociale della Chiesa

LE COSE NUOVE DEL XXI SECOLO

Fascicolo 2021, 1 – Gennaio-Marzo 2021

Prima pubblicazione online: Marzo 2021

ISSN 2784-8884

DOI 10.26350/dizdott_000038

Delocalizzazione produttiva Delocalization

di Laura Maria Ferri

Abstract:

ENGLISH

Il termine delocalizzazione produttiva identifica la decisione di un’impresa di spostare parte della propria attività in Paesi diversi da quello di origine, al fine di avvantaggiarsi di condizioni di produzione migliori, spesso associate a minori costi del lavoro e delle materie prime. Tale processo può determinare numerosi vantaggi, tra cui una maggiore competitività dell’impresa e la possibilità di trasferire posti di lavoro, conoscenze e tecnologia al contesto di destinazione. Tuttavia, evidenti sono i rischi: dall’impoverimento dei Paesi di origine, fino all’acuirsi di situazioni di sfruttamento del lavoro e depauperamento delle risorse in quelli in cui si sposta l’attività. La DSC rileva la complessità del fenomeno e richiama alla necessità di proporre modelli di sviluppo capaci di promuovere la dignità e la creatività umana, lo sviluppo integrale solidale dei Popoli, una più equa distribuzione della ricchezza e un maggiore rispetto per l’ambiente e la qualità della vita.

Parole chiave: Delocalizzazione, Globalizzazione, Filiere internazionali, Costo del lavoro, Diritti dei lavoratori
ERC: SH1_9

ITALIANO

The term delocalization refers to the decision of a firm to relocate part or the entire productive process abroad, to take advantage of more profitable conditions, often related to lower costs of labor and raw materials. This process can generate advantages such as an increase of the competitiveness of the firm, or the transfer of jobs, know-how and technologies to the target country. However, risks are many and varied, from the impoverishment of the context of origin, to the worsening of local labor and life conditions and the depletion of local resources. The SDC discusses the complexity of this phenomenon and calls to the necessity to propose new development models able to promote human dignity and creativity, the integral and supportive development of peoples, a more equitable distribution of wealth and a better respect for the environment and the quality of life.

Keywords: Delocalization, Globalization, International supply chains, Labour cost, Worker rights
ERC: SH1_9

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Il fenomeno della delocalizzazione produttiva

La delocalizzazione produttiva è un fenomeno legato all’internazionalizzazione d’impresa, con cui si identificano tutti i processi attraverso i quali un’organizzazione si espande geograficamente allo scopo di vendere, produrre o acquistare beni e servizi. Il termine “delocalizzazione” si riferisce, nello specifico, alla decisione di un’impresa di spostare parte della produzione in Paesi stranieri, per ricercare opportunità o condizioni non presenti nel mercato di origine e aumentare così la propria competitività. Lo spostamento può avvenire con modalità differenti, a seconda dell’investimento che l’impresa è in grado di sostenere, del grado di controllo e integrazione che intende mantenere e delle eventuali restrizioni presenti nel contesto di destinazione: così l’impresa può decidere di creare una nuova sede, oppure acquisire una realtà locale già operante o, infine, affidare a imprese terze parte delle proprie attività. Anche le spinte alla delocalizzazione possono variare a seconda delle caratteristiche dell’attività d’impresa. In tal senso, è frequente che le imprese operanti in settori labour intensive e a basso o medio livello tecnologico ricerchino vantaggi legati al basso costo del lavoro o delle risorse; diversamente, per le imprese presenti in settori capital intensive e ad alta tecnologia, la delocalizzazione può offrire accesso a nuovi mercati o a risorse e competenze non disponibili nel territorio di origine.

Sebbene il termine non abbia di per sé un’accezione negativa, è frequente sentir parlare di delocalizzazione produttiva come di un processo rischioso e dannoso, in cui tale scelta viene associata all’espansione in Paesi in via di sviluppo allo scopo di sfruttare particolari fragilità locali, tra cui basso costo del lavoro e/o delle risorse, agevolazioni fiscali, normative meno stringenti e più permissive, istituzioni locali deboli. Le esperienze di delocalizzazione non si limitano a tali situazioni, tuttavia è pur vero che negli anni più recenti frequenti sono stati gli scandali che hanno coinvolto aziende scoperte a sfruttare lavoratori o a mettere in atto comportamenti pericolosi in ambito di sicurezza del lavoro e di tutela ambientale al fine di ridurre i costi di produzione e velocizzarne i processi. Tra queste sono state identificate principalmente grandi multinazionali, ma situazioni simili sono riscontrabili anche nelle filiere produttive internazionali di imprese di minori dimensioni.

Così il fenomeno viene rilevato nella dottrina sociale della Chiesa: “Il mercato diventato globale ha stimolato anzitutto, da parte di Paesi ricchi, la ricerca di aree dove delocalizzare le produzioni di basso costo al fine di ridurre i prezzi di molti beni, accrescere il potere di acquisto e accelerare pertanto il tasso di sviluppo centrato su maggiori consumi per il proprio mercato interno. Conseguentemente, il mercato ha stimolato forme nuove di competizione tra Stati allo scopo di attirare centri produttivi di imprese straniere, mediante vari strumenti, tra cui un fisco favorevole e la deregolamentazione del mondo del lavoro.” (Caritas in veritate, 2009, 25).

Le implicazioni sociali della delocalizzazione produttiva

L’emergere di queste situazioni ha portato a una profonda riflessione attorno al ruolo dei processi di delocalizzazione, che ha consentito di evidenziarne le implicazioni positive e negative sia sul contesto di origine, sia su quello di destinazione. Anche la dottrina sociale della Chiesa si inserisce in tale dibattito: nel Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa (2004) infatti, si rileva come “oltre ad individuare le opportunità che si dischiudono nell’era dell’economia globale, si colgono anche i rischi legati alle nuove dimensioni delle relazioni commerciali e finanziarie” (362). La dottrina sociale della Chiesa è quindi concorde nel riconoscere la possibilità che da un processo di delocalizzazione possano derivare benefici: è innegabile, infatti, che, se ben gestita, l’espansione dell’attività economica può produrre nuove opportunità di sviluppo, favorire l’avanzamento sociale e tecnologico delle aree meno sviluppate, generare nuovi posti di lavoro e promuovere lo sviluppo delle conoscenze (cfr. Caritas in veritate, 40). Tuttavia, gravi sono le possibili distorsioni che possono derivarne e che possono portare all’acuirsi del divario tra Paesi sviluppati e Paesi più deboli fino all’impoverimento sociale e ambientale dei diversi contesti locali (Compendio, 364; Laudato si’, 2015, 173; Caritas in veritate, 22; Populorum progressio, 1967, 24): “Non mancano, infatti, indizi rivelatori di una tendenza all’aumento delle disuguaglianze tra Paesi avanzati e Paesi in via di sviluppo, sia all’interno dei Paesi industrializzati. Alla crescente ricchezza economica resa possibile dai processi descritti si accompagna una crescita della povertà relativa” (Compendio, 362). Se non adeguatamente gestita, la presenza nel contesto di destinazione si traduce in nuove pressioni che gravano sulle imprese locali e sui lavoratori: la ricerca di vantaggi di costo e di tempi produttivi sempre più brevi, ad esempio, porta l’impresa locale a ridurre gli stipendi, limitare o eliminare gli investimenti, estendere le ore lavorative al fine di rispondere agli accordi contrattuali. Ancora, la delocalizzazione di attività a bassa specializzazione o tecnologia spinge le imprese a non investire nello sviluppo delle conoscenze e capacità dei partner locali, in quanto questo comporterebbe un aumento dei costi e un coinvolgimento di lungo periodo, che spesso contrastano con gli obiettivi economici e strategici. Non è difficile comprendere il motivo per cui le imprese locali accettino tali condizioni: il mancato rispetto o l’incapacità di fornire beni e servizi alle condizioni imposte comporta frequentemente la chiusura del contratto, provocando ulteriori conseguenze negative sulle persone e sul contesto.

La persona al centro dei nuovi modelli di sviluppo

È evidente che l’origine di tali distorsioni non risiede esclusivamente nel comportamento delle imprese, ma deriva anche dalla fragilità delle istituzioni e dei sistemi socio-economici locali, spesso incapaci di imporre il rispetto di standard di lavoro più elevati e la tutela dei diritti dei lavoratori: tale incapacità risiede da un lato, nella mancanza di risorse e da uno scarso potere politico-istituzionale nei confronti delle imprese e dei governi stranieri; dall’altro, nella consapevolezza che un eventuale miglioramento delle condizioni di vita e lavoro comporterebbe un aumento del costo del lavoro e dei fattori produttivi, disincentivando gli investimenti da parte di imprese estere, con conseguente perdita di attività produttive, posti di lavoro e risorse economiche. Pertanto, la soluzione delle distorsioni derivanti dalla delocalizzazione potrebbe essere perseguita solo grazie all’impegno congiunto dei diversi attori sociali.

Nella dottrina sociale della Chiesa, preoccupazione particolare viene espressa nei confronti della necessità di proporre modelli di sviluppo capaci di difendere e promuovere la dignità e la creatività umana, lo sviluppo integrale solidale dei Popoli, una più equa distribuzione della ricchezza e un maggiore rispetto per l’ambiente e la qualità della vita. La proposta è, dunque, quella di rimettere la persona al centro dello sviluppo degli assetti economico-sociali su scala internazionale, come fortemente ricordato da Benedetto XVI nella Caritas in veritate: “il primo capitale da salvaguardare e valorizzare è l’uomo, la persona, nella sua integrità:l’uomo infatti è l’autore, il centro e il fine di tutta la vita economico-sociale’” (25). Sempre Benedetto XVI nella medesima enciclica sottolinea come l’azione economica debba essere orientata al bene comune, senza cedere a obiettivi speculativi che ne riducono la valenza sociale: “Non è però lecito delocalizzare solo per godere di particolari condizioni di favore, o peggio per sfruttamento, senza apportare alla società locale un vero contributo per la nascita di un robusto sistema produttivo e sociale, fattore imprescindibile di sviluppo stabile” (Caritas in veritate, 40). La stessa attenzione al bene comune e alla valutazione dei possibili danni derivanti dal trasferimento di capitali all’estero era già stata espressa da Paolo VI nella Populorum progressio (24).

Il ruolo delle imprese nello sviluppo di modelli di gestione responsabile

Verrebbe naturale chiedersi come un’impresa impegnata in processi di delocalizzazione possa rispondere a tale richiamo e risolvere la dicotomia tra obiettivi economici e promozione di migliori condizioni sociali, soprattutto laddove non abbia il governo diretto delle attività, ma abbia scelto modalità di esternalizzazione delle attività. A tale proposito è significativo il richiamo presente nella Caritas in veritate (40), in cui si esortano manager e imprenditori a tener conto dei vincoli di giustizia e a sviluppare modelli di delocalizzazione capaci di “apportare alla società locale un vero contributo per la nascita di un robusto sistema produttivo e sociale, fattore imprescindibile di sviluppo stabile”, nel pieno rispetto dei territori e delle popolazioni coinvolte.

Anche gli studi esistenti hanno affrontato tale dicotomia, dimostrando come essa sia l’esito di una visione miope sul processo di delocalizzazione: i casi di imprese coinvolte in scandali o incidenti, così come le ricerche condotte a livello internazionale, infatti, hanno permesso di comprendere come un comportamento maggiormente responsabile da parte delle imprese(con conseguente attenzione e investimento nello sviluppo di politiche sociali e ambientali a tutela e supporto dello sviluppo locale), possa generare benefici anche per l’organizzazione. Così, ad esempio, supportare le imprese locali nel miglioramento delle condizioni di lavoro presso i propri stabilimenti contribuisce a ridurre i rischi operativi e reputazionali per tutti gli attori della filiera; o, ancora, favorire nel partner locale lo sviluppo di capacità in materia di gestione degli impatti ambientali dell’attività produttiva aiuta ad incrementare l’efficienza dei processi e a migliorare le caratteristiche dei prodotti. A conferma di ciò, oggi si possono cogliere alcuni segnali di un cambiamento di approccio da parte delle imprese nei confronti delle proprie filiere produttive internazionali: l’ultimo decennio è stato caratterizzato dall’affermarsi di politiche e pratiche di gestione responsabile e sostenibile anche al di fuori dei confini propri dell’organizzazione, a favore di fornitori e stakeholder che partecipano ai processi produttivi. Secondo la letteratura scientifica, un tale approccio risponde in maniera più completa alla ricerca di opportunità di creazione di vantaggio competitivo, in quanto contribuisce a eliminare comportamenti scorretti, pericolosi e inefficienti, promuovendo al contempo lo sviluppo di nuove occasioni di crescita. In tal senso, la capacità dell’impresa di occuparsi in modo integrale del processo di delocalizzazione non si contrappone all’obiettivo economico, ma lo sostiene, rendendolo più solido, sicuro e proficuo.

La proposta di un impegno comune

La diffusione di approcci responsabili e sostenibili alla gestione dei processi di delocalizzazione, tuttavia, deve essere promossa e sostenuta da interventi sia a livello nazionale che internazionale. Attualmente, infatti, la maggior parte dell’impegno è demandato all’azione dei singoli soggetti economici: per quanto questo stimoli la ricerca di soluzioni innovative virtuose, è comunque necessario favorire lo sviluppo di strumenti e organismi capaci di coordinare i diversi interventi, così da massimizzare i risultati e ridurre la dispersione di risorse. Diverse sono le linee di intervento su cui si focalizza l’attenzione della dottrina sociale della Chiesa, tra cui la necessità di una “Autorità politica mondiale proposta da Giovanni XXIII e Benedetto VI (Caritas in veritate, 67), la definizione di regole e leggi giuste che disciplinino l’attività economica a livello globale (Caritas in veritate, 37), lo sviluppo di sistemi di misurazione e analisi che aiutino a comprendere gli impatti reali e complessivi della delocalizzazione (Laudato si’, 141, 183) e la promozione di una maggiore cooperazione internazionale in ambito economico a favore di modelli di sviluppo basati sulla solidarietà tra Paesi avanzati e Paesi in via di sviluppo (Gaudium et spes, 1966, 85, 87) e orientati alla “edificazione dell’ordine internazionale” (Gaudium et spes, 88).


Bibliografia
Caselli M. (2002), Globalizzazione e sviluppo: quali opportunità per il sud del mondo?, Vita e pensiero.
Ferri L. M. (2018), Strategie e performance della gestione responsabile dei fornitori, Giappichelli.
Mercier-Suissa C. (2014), Delocalizzazione e Corporate Social Responsibility, “Economia Aziendale Online”, 4(3), 241-249.
Ornaghi L. (ed.) (2001), Globalizzazione: nuove ricchezze e nuove povertà, (vol. 2), Vita e Pensiero.
Sen A. K. (2002), Globalizzazione e libertà (vol. 3), Mondadori.


Autore
Laura Maria Ferri, Università Cattolica del Sacro Cuore (laura.ferri@unicatt.it)