×

Desideri ricevere notizie dal Centro di Ateneo per la dottrina sociale della Chiesa dell’Università Cattolica del Sacro Cuore?

Iscriviti alla Newsletter

Dizionario di dottrina
sociale della Chiesa

LE COSE NUOVE DEL XXI SECOLO

Fascicolo 2023, 4 – Ottobre-Dicembre 2023

Prima pubblicazione online: Dicembre 2023

ISSN 2784-8884

DOI 10.26350/dizdott_000137

Amministrazione condivisa e sussidiarietà: sfide per il terzo settore Shared Administration

di Luca Pesenti

Abstract:

ENGLISH

È in corso un cambio di paradigma nel rapporto tra Pubblica Amministrazione e organizzazioni della società civile. Dopo la stagione del “New Public Management” si sta imponendo la logica della “New Public Governance”, che punta a raggiungere un maggior pluralismo scommettendo sulla collaborazione e la fiducia. Le logiche dell’amministrazione condivisa reinterpretano il principio di sussidiarietà, elemento fondamentale della dottrina sociale, attraverso modalità innovative come la coprogrammazione e la coprogettazione, in particolare nell’ambito del welfare territoriale.

Parole chiave: Collaborazione, Sussidiarietà, Terzo settore, Pubblica Amministrazione, Coprogrammazione
ERC: SH2_1; SH3_7

ITALIANO

A paradigm shift is underway in the relationship between public administration and civil society organizations. After the season of "New Public Management," the logic of "New Public Governance" is emerging, which aims to achieve greater pluralism by betting on collaboration and trust. The logics of shared administration fully recover the principle of subsidiarity, a fundamental element of the social doctrine, through innovative ways such as co-programming and co-design, particularly in the area of territorial welfare.

Keywords: Collaboration, Subsidiarity, Third sector, Public Administration, Co-planning
ERC: SH2_1; SH3_7

Condividi su Facebook Condividi su Linkedin Condividi su Twitter Condividi su Academia.edu Condividi su ResearchGate

Tre paradigmi per la Pubblica Amministrazione

L’analisi delle modalità con cui la Pubblica Amministrazione governa la produzione di servizi e beni pubblici rappresenta da tempo un campo in cui si confrontano le scienze politiche, l’analisi delle politiche pubbliche, le scienze giuridiche, le scienze manageriali e le scienze sociali.

In un assai influente articolo, S.P. Osborne (2006) ha in particolare individuato tre paradigmi interpretativi (tabella 1):

• il paradigma “statalista” della Pubblica Amministrazione, teoricamente radicato nelle scienze politiche, tipico di un’interpretazione unitaria e “monista” dello Stato e dell’idea di “pubblico” come coincidente a “statale”, governato da un meccanismo rigidamente gerarchico e burocratico in senso weberiano, con una base di valore centrata sulla prevalenza dell’etica pubblica;

• il paradigma del “New Public Management”, fondato sulla teoria della scelta razionale, caratteristico di un’interpretazione dello Stato come insieme di livelli di governo disaggregati, centrato sulla ricerca di efficienza mutuando il meccanismo di governance dal mercato e della logica contrattuale, a partire dal valore centrale della concorrenza;

• il paradigma della “New Public Governance”, più squisitamente sociologico, centrato su una visione plurale e pluralista dello Stato e su meccanismi di governance in cui si prevedono modalità non contrattuali, fiduciarie e relazionali per la selezione dei fornitori dei servizi in una logica di valore di tipo neo-corporativo.

Tabella 1
Paradigmi dell’amministrazione pubblica
Fonte: nostra rielaborazione da Osborne (2006, 383)

Paradigma
Radici teoriche
Natura dello Stato
Elemento chiave
Rapporto con soggetti non pubblici
Meccanismo di governance
Base di valore
Pubblica Amministrazione
Scienze politiche /analisi delle politiche pubbliche
Unitario
Sistema politico
Includente nel sistema politico
Gerarchia
Etica pubblica
New Public Management
Teoria della scelta razionale
Disaggregato
Gestione intraorganizzativa
Appalto in un mercato competitivo
Mercato, contratto
Concorrenza
New Public Governance
Sociologia, teoria delle reti
Plurale e pluralista
Governance interorganizzativa
Fornitori preferiti dentro rapporti continuativi
Contratti fiduciari e relazionali
Neo corporativismo

Un lungo processo trasformativo

Il paradigma del New Public Management si è sostanziato nello sviluppo di forme di aziendalizzazione, nella diffusione della logica contrattuale dell’appalto o, nelle forme più evolute, nei modelli di “quasi mercati” (secondo la nota definizione dell’economista britannico Julian Le Grand) in settori-chiave come le politiche socio-assistenziali e le politiche sanitarie, più limitatamente nelle politiche per l’istruzione. La logica della esternalizzazione dei servizi (contracting-out) si è così imposta negli anni Ottanta in buona parte dell’Europa (compresa l’Italia, nell’ambito della disciplina degli appalti) come una assai diffusa modalità di relazione tra pubblico e privato (soprattutto non profit), assegnando ai soggetti di terzo settore funzioni esclusivamente di tipo gestionale.

Dalla seconda metà degli anni Novanta comincia invece a prendere piede una più diffusa consapevolezza della necessità di coinvolgere i soggetti di terzo settore anche nelle fasi di programmazione e/o progettazione dei servizi, aprendo a una stagione di mutuo relazionamento con i soggetti pubblici che troverà in Italia piena accoglienza con la Legge 328/2000 di riordino delle politiche sociali. Nello specifico, la norma (pensata per ricondurre a unità le pluralità di esperienze sviluppatesi nel tempo a livello regionale) ha introdotto i Piani di Zona, ovvero strumenti di programmazione locale esplicitamente immaginati come documenti (ma anche come unità organizzative autonome) attraverso i quali sviluppare processi di inclusione nella pianificazione territoriale delle politiche sociali non soltanto di molteplici soggetti pubblici (i Comuni firmatari l’Accordo di programma), ma anche soggetti del terzo settore, aziende sanitarie locali e ogni altro attore (pubblico o privato) ritenuto strategico sul territorio. Al terzo settore, in particolare, dovrebbero essere dedicati tavoli di effettiva coprogrammazione, tuttavia molte ricerche hanno mostrato come spesso al non profit sia riconosciuto al più un ruolo consultivo, dentro processi amministrativi segnati più da logiche inerziali che da spinte di tipo innovativo.

Verso l’amministrazione condivisa

Insomma, anche in questo modello è stata forte la tentazione dell’ente pubblico di “strumentalizzare” in modo particolaristico il rapporto con il terzo settore, utilizzandolo per affrontare la crisi di sostenibilità del welfare senza tuttavia metterlo al riparo da logiche di funzionamento del mercato. Pur con la presenza di questi limiti, proprio questa seconda esperienza, unitamente all’avvento del paradigma della New Public Governance, ha tuttavia aperto la strada a forme di condivisione della responsabilità tra soggetti pubblici e privati nel perimetro delle politiche di welfare, per giungere negli ultimi anni allo sviluppo degli strumenti di “amministrazione condivisa”. Quest’ultima impostazione supera la tradizionale diarchia Stato-mercato, aprendosi al riconoscimento di un ruolo attivo e positivo della società civile con funzione pubblica, nel quadro di una cittadinanza che da individualista si fa sempre più “societaria” (per usare una felice espressione di P.P. Donati). Tale modalità ha trovato applicazioni in vari Paesi, in particolare nell’ambito della gestione delle politiche sociali, socio-sanitarie e socio-assistenziali, spingendo a una decisa trasformazione della Pubblica Amministrazione, chiamata ad abbandonare il tradizionale ruolo di primazia gerarchica per assumere modalità di azione finalizzate a capacitare e facilitare la presenza di attori privati (soprattutto non profit) nelle arene di produzione di beni e servizi pubblici.

Uno dei più noti antesignani della logica di amministrazione condivisa è il caso del Community planning scozzese, approccio figlio di una norma emanata dal Governo nel 2003. Si tratta in estrema sintesi di un «processo attraverso il quale i diversi enti pubblici e le formazioni comunitarie lavorano insieme per progettare ed erogare servizi che rispondano alle esigenze della cittadinanza, in particolare per le persone che ne hanno più bisogno» (Cesareo e Pavesi, 2019, 65). Tutti gli attori coinvolti copartecipano alla pianificazione degli interventi, esplicitando le responsabilità e le risorse che sono disponibili a condividere. Un modello che assomiglia molto alle logiche di “amministrazione condivisa” che di seguito analizzeremo.

Il caso italiano e la “svolta collaborativa”

La premessa di queste logiche è rinvenibile nel Codice del Terzo Settore (D. Lgs. 3 luglio 2017, n. 117), testo che ha definito un quadro regolamentare unitario al mondo del non profit, superando la precedente legislazione frammentata. Di capitale importanza in tal senso è quanto presente nell’art. 55 del Codice: «le amministrazioni pubbliche […] nell’esercizio delle proprie funzioni di programmazione e organizzazione a livello territoriale degli interventi e dei servizi nei settori di attività di cui all’articolo 5 [l’articolo del Codice che precisa cosa si debba intendere con il concetto di “attività di interesse generale”, ndr.], assicurano il coinvolgimento attivo degli enti del Terzo settore, attraverso forme di coprogrammazione e coprogettazione e accreditamento».

Tale articolo è stato giustamente salutato come un salto di qualità nelle relazioni tra pubblico e terzo settore, capace di aprire la strada a forme partenariali più nette e coinvolgenti, superando definitivamente i precedenti paradigmi. Ne hanno preso atto alcune Regioni, che a partire dal 2020 hanno iniziato a sviluppare una legislazione promozionale specifica, limitata alla sola definizione applicativa dell’amministrazione condivisa (nel caso della L.R. Umbria 2/2023) o più ampiamente finalizzata ad attuare complessivamente il Codice del Terzo settore (è il caso della L.R. Toscana 65/2020, della L.R. Molise 21/2022 e della L.R. Emilia-Romagna 3/2023).

La vera “svolta collaborativa” (almeno potenziale) era tuttavia nel frattempo giunta a compimento nel 2020, allorché la Corte Costituzionale (interrogata sul tema dalla Regione Umbria) pose con la sentenza 131 un mattone definitivo per l’edificazione del nuovo edificio programmatorio. Si legge nella sentenza: «L’art. 55 del Codice del terzo settore, disciplinando i rapporti tra enti del terzo settore (ETS) e pubbliche amministrazioni, rappresenta una delle più significative attuazioni del principio di sussidiarietà orizzontale. Esso pone in capo ai soggetti pubblici il compito di assicurare il coinvolgimento attivo degli ETS nella programmazione, progettazione e organizzazione degli interventi e dei servizi».

L’amministrazione condivisa, attuazione della sussidiarietà

Dunque, le logiche della coprogrammazione e della coprogettazione si pongono agli occhi della Corte costituzionale come «una delle più significative attuazioni del principio di sussidiarietà orizzontale», come noto divenuto a pieno titolo principio Costituzionale grazie alla riforma del Titolo V (e in specifico dell’art. 18) intervenuta nel 2001.

Ci troviamo all’interno di uno dei principi fondamentali della dottrina sociale: la sussidiarietà è infatti indicata «tra le più costanti e caratteristiche direttive della dottrina sociale della Chiesa» (Compendio della dottrina sociale della Chiesa, 2004, 185) e proprio per questo non a caso selezionata già nell’edizione 2004 del Dizionario di dottrina sociale della Chiesa come una delle dieci voci fondamentali per conoscere e comprendere il Magistero. Rimandiamo volentieri a quella voce, allora curata da Giorgio Feliciani, per la ricostruzione puntuale del suo sviluppo magisteriale, e in particolare alla disamina del punto sorgivo, l’enciclica Quadragesimo anno di Pio XI (1931). Scriveva Feliciani a tal proposito: «Il Pontefice constata, innanzitutto, come, a causa dei mutamenti intervenuti nella società moderna, molte iniziative possono ormai essere realizzate solo ad opera di quelle che definisce come “grandi associazioni”, vale a dire, in pratica, dallo Stato e dagli enti pubblici. Afferma, poi, con forza che, anche in questa nuova situazione, deve comunque «restare saldo il principio importantissimo nella filosofia sociale» secondo il quale «siccome è illecito togliere agli individui ciò che essi possono compiere con le forze e l’industria propria per affidarlo alla comunità, così è ingiusto rimettere a una maggiore e più alta società quello che dalle minori e inferiori comunità si può fare». E, riprendendo la Quadragesimo anno (80), aggiungeva che «“oggetto naturale di qualsiasi intervento della società stessa è quello di aiutare in maniera suppletiva” [in latino “subsidium”: da qui deriva il termine “sussidiarietà”]le membra del corpo sociale, non già distruggerle ed assorbirle”».

La sussidiarietà nel Magistero recente

La ricostruzione di Feliciani si ferma, ovviamente, alla ripresa del tema da parte di Giovanni Paolo II (Centesimus annus, 1991), ma la riflessione sulle relazioni tra Stato, persona e corpi intermedi è proseguita, arricchendosi e assumendo una portata sempre più significativa. Molto interessante, ai fini della nostra trattazione, è, ad esempio, questo passaggio della Caritas in veritate (2009) di Papa Benedetto XVI: «Riconoscendo nella reciprocità l’intima costituzione dell’essere umano, la sussidiarietà è l’antidoto più efficace contro ogni forma di assistenzialismo paternalista. Essa può dar conto sia della molteplice articolazione dei piani e quindi della pluralità dei soggetti, sia di un loro coordinamento» (57). Il coordinamento di una pluralità di soggetti rappresenta a ben vedere la grammatica di un’amministrazione condivisa autentica, che si pone da questo punto di vista come fondamentale strumento per correggere il rischio (sempre presente) della perdurante subordinazione dei soggetti della società civile. «Non uno Stato che regoli e domini tutto» è ciò che ci occorre – aveva in precedenza sottolineato lo stesso Benedetto XVI – ma «uno Stato che generosamente riconosca e sostenga, nella linea del principio di sussidiarietà, le iniziative che sorgono dalle diverse forze sociali e uniscono spontaneità e vicinanza agli uomini bisognosi di aiuto» (Deus caritas est, 2005, 28).

Vi è dunque nel Magistero un approfondimento sempre più specifico sul compito che deve porsi l’attore pubblico: non quello di regolatore in posizione dominante, né al contrario un arbitro neutrale cui limitare semplicemente le competenze per liberare il potenziale inespresso della società, bensì un soggetto che attivamente sostiene e promuove le comunità intermedie. In aggiunta, Benedetto XVI descrive anche un potere pubblico che non si pone in sostituzione dell’operosità sociale, rischio, cui si può incorrere anche dentro la Chiesa e forse proprio per questo corretto in radice: «L’affermazione secondo la quale le strutture giuste renderebbero superflue le opere di carità di fatto nasconde una concezione materialistica dell’uomo: il pregiudizio secondo cui l’uomo vivrebbe “di solo pane” (Mt 4, 4; cfr. Dt 8, 3) – convinzione che umilia l’uomo e disconosce proprio ciò che è più specificamente umano» (Deus caritas est, 28).

L’attualità del Magistero

Parole che ancora oggi appaiono di stringente attualità, perché l’alternativa all’amministrazione condivisa, soprattutto nell’ambito dei bisogni sociali, è spesso proprio quella di una sostituzione o addirittura di una sovrapposizione dei pubblici poteri a livello locale e territoriale, mossi spesso dall’intima convinzione che la giustizia sociale operata dalla mano pubblica possa e debba rendere superfluo l’intervento privato, sia esso anche di tipo caritativo.

L’intento della Deus caritas est è dunque quello di evitare ogni logica esclusiva e monista, del tutto opposta alla logica inclusiva, pluralista, aperta, cooperativa e coordinata tipica dell’amministrazione condivisa. Tema quanto mai caro anche a Papa Francesco, come esemplarmente possiamo ritrovare nella Fratelli tutti (2020): «Occorre pensare alla partecipazione sociale, politica ed economica in modalità tali che includano i movimenti popolari e animino le strutture di governo locali, nazionali e internazionali con quel torrente di energia morale che nasce dal coinvolgimento degli esclusi nella costruzione del destino comune; al tempo stesso, è bene far sì che questi movimenti, queste esperienze di solidarietà che crescono dal basso, dal sottosuolo del pianeta, confluiscano, siano più coordinati, s’incontrino. […] Con essi sarà possibile uno sviluppo umano integrale, che richiede di superare quell’idea delle politiche sociali concepite come una politica verso i poveri, ma mai con i poveri, mai dei poveri e tanto meno inserita in un progetto che riunisca i popoli» (Fratelli tutti, 169).

Seppur posizionata su un livello certamente più alto e globale rispetto all’amministrazione degli interventi sociali, l’impostazione di Francesco approfondisce se possibile ancor di più il tema dell’inclusione dei soggetti sociali nell’ambito delle diverse forme di partecipazione sociale e politica: non soltanto perché ciò può rendere più efficace l’intervento, ma anche per far sì che questi soggetti s’incontrino, superando così ogni particolarismo.

Amministrazione condivisa, strumento di inclusione sociale

Da questo punto di vista, l’amministrazione condivisa agisce proprio a partire dalla coscienza di questo rischio, così da includere, coinvolgere, coordinare in un unico processo una pluralità di energie che altrimenti resterebbero isolate, forse più sicure di sé sul piano identitario, ma altrettanto certamente meno efficaci nella possibilità di affrontare in modo integrale il problema delle persone.

Ma l’amministrazione condivisa non richiede solo il sacrificio del proprio particulare ai soggetti di terzo settore, ma anche (e forse innanzitutto) una disponibilità non scontata da parte del potere politico nel “farsi parte tra le parti”, di essere uno degli attori in gioco e non necessariamente il più importante. Ancora Francesco nella Fratelli tutti approfondisce proprio questo punto: «La carità politica si esprime anche nell’apertura a tutti. Specialmente chi ha la responsabilità di governare, è chiamato a rinunce che rendano possibile l’incontro, e cerca la convergenza almeno su alcuni temi. Sa ascoltare il punto di vista dell’altro consentendo che tutti abbiano un loro spazio. Con rinunce e pazienza un governante può favorire la creazione di quel bel poliedro dove tutti trovano un posto. In questo ambito non funzionano le trattative di tipo economico. È qualcosa di più, è un interscambio di offerte in favore del bene comune. Sembra un’utopia ingenua, ma non possiamo rinunciare a questo altissimo obiettivo» (190).

Proprio queste ultime osservazioni aiutano ad illuminare le possibili prospettive che si aprono grazie all’attuazione di forme di amministrazione condivisa.

Le sfide per la Pubblica Amministrazione

Resta naturalmente da comprendere se e come le prassi di amministrazione condivisa stiano effettivamente trovando piena applicazione nei differenti campi. Le prime esperienze di ricerca, orientate principalmente all’analisi di casi attuati nell’ambito delle politiche sociali di livello locale-territoriale, mostrano un processo che appare soltanto all’inizio e il cui cammino sarà inevitabilmente lungo e non privo di criticità (De Ambrogio e Marocchi 2023). La storia del welfare mix si è sviluppata prevalentemente all’interno di processi di esternalizzazione dei servizi attraverso gare d’appalto. Ciò ha inevitabilmente costruito una cultura delle relazioni tra PA e terzo settore di cui possiamo solo accennare alcuni elementi tipici: prevalenza di logiche di controllo gerarchico finalizzate alla verifica dei processi e degli output più che alla valutazione sugli outcome; attuazione di interventi orientati al massimo ribasso dei costi più che al riconoscimento della qualità dei servizi resi; scarso incentivo all’innovazione e alla creatività da parte degli ETS, con l’aggiunta di una crescente tendenza alla chiusura particolarista generata dalla tensione alla concorrenza.

Se questa è la condizione di partenza, non può stupire il fatto che molte delle esperienze analizzate sembrino ancora figlie di quel modello culturale. La PA sembra insomma faticare a uscire dalle logiche dell’appalto, non di rado continua a esercitare un ruolo segnato da discrezionalità (per garantire continuità agli affidamenti verso specifici ETS) e complessità burocratica, e allo stesso tempo si spinge fino a richiedere una compartecipazione finanziaria agli ETS. Tutti tratti che si prestano ad essere sospettabili di nascondere un’implicita volontà di controllo se non, ancora una volta, di riduzione dei costi a carico dell’ente pubblico. Sullo sfondo, ma non meno rilevanti, si pongono poi alcuni elementi di tipo strategico: molto limitato è, per esempio, l’utilizzo della coprogrammazione, una scelta che, come tale, conferma il rischio di un atteggiamento collaborativo più formale (e gestionale) che sostanziale da parte della PA.

Le sfide per il Terzo settore

Non meno rilevanti (e speculari) le sfide che dovrà affrontare il Terzo settore. La lunga abitudine alla logica degli appalti ha condensato anche in questo caso una specifica cultura delle relazioni con la PA, che mal si presta a coniugarsi con dinamiche di condivisione collaborative e corresponsabilizzanti. Indicativa in tal senso è la difficoltà da parte degli ETS di uscire da logiche di concorrenza interna tra gruppi dominati da soggetti dimensionalmente più robusti (in prevalenza cooperative sociali). Così come non sembrano ancora maturate le condizioni per allargare lo spazio della coprogettazione anche ai soggetti profit (per esempio alle aziende che dispongono di un piano di welfare aperto al territorio): le prime analisi sul tema segnalano come le logiche collaborative rimangano all’interno della diade PA – Terzo settore, per altro con non pochi punti aperti relativi alle modalità di selezione degli attori chiamati a coprogettare, mentre è plausibile immaginarne uno spazio di ampliamento anche al di fuori di questa coppia di soggetti.

Del tutto inesplorate sono, ancora, le possibilità che lo strumento collaborativo possa aprirsi a un coinvolgimento ampio della società anche nelle sue forme meno organizzate e di cittadinanza attiva. E infine (ma non meno importante) resta da dimostrare attraverso adeguati processi valutativi se e come le procedure di coprogettazione riescano a raggiungere risultati migliori (in termini di efficacia prima che di efficienza economica) rispetto ai precedenti modelli di esternalizzazione.


Bibliografia
• Cesareo V., Pavesi N. (2019), Il welfare responsabile alla prova, Vita e Pensiero, Milano.
• De Ambrogio U., Marocchi G. (2023), Coprogrammare e coprogettare. Amministrazione condivisa e buone pratiche, Carocci, Roma.
• Fazzi L. (2022), Sussidiarietà e coprogettazione: un legame implicito o ancora da costruire?, in «Impresa Sociale», 4, 69-75.
• Feliciani G. (2004), Sussidiarietà, in Dizionario di dottrina sociale della Chiesa. Scienze sociali e Magistero, Vita e Pensiero, Milano, 87-93.
• Osborne S.P. (2006), The New Public Governance?, in «Public Management Review», 8 (3), 377-387.


Autore
Luca Pesenti, Università Cattolica del Sacro Cuore (luca.pesenti@unicatt.it)